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Giampaolo Pansa, la sinistra lo odia anche da morto

Francesco Specchia
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Giampaolo Pansa,1935-2020 Come Gramsci, nella sua turbolenza intellettuale, Giampaolo Pansa odiava gli indifferenti: non era vero che il sangue dei vinti gli scivolasse addosso, assieme agli insulti feroci dei suoi (ex) compagni. Tutt’altro.

Da comunista perbene, Giampaolo era lacerato dall’inversione della realtà esercitata dai negazionisti più beceri e sottoscritta da un Pd che si voltava sempre dall’altra parte. Era straziato dagli attacchi -da sinistra- alla sua natura di storico tignoso e di divulgatore indipendente; viveva con finta disinvoltura i picchetti che gli impedivano di presenziare alle uscite dei suoi libri, l’isolamento dei suoi ex amici intellettuali, la disonestà diffusa del suo mondo.

Chissà cosa penserebbe oggi Giampaolo, il riottoso cronista perfetto, maestro di noi tutti, del fatto che la stessa Anpi –l’associazione nazionale partigiani che nel suo anacronismo s’è oramai mutata in un ente politicolo attacchi anche da morto, falsificando putinianamente la Storia. Falsificandola, e temendo la crudezza della verità dei fatti.

 

FALSIFICARE LA STORIA
Fa impressione, oggi, scorrere via tweet gli sfottò contro la nuova edizione del suo best seller Il sangue dei vinti firmati dalle varie sedi Anpi.Roba tipo: «Attenzione! Nuova edizione del fantasy book per eccellenza!», condite da emoticon con faccine che vomitano o vengono attraversate da simbologie naziste.

Una sequela di gesti orribili, da cui promana una valanga di convegni nei quali si tenta di riattizzare, in epoca ardentemente meloniana, le falsità della propaganda rossa d’ideologia ma non di vergogna: convegni universitari sulle «foibe come vendetta sulla violenza fascista»; sul ruolo fondamentale degli Alleati; sulla dipendenza di Togliatti da Mosca; sulla vulgata che vedeva gli antifascisti solo tra gli comunisti (c’erano i cattolici, i liberali, gli azionisti); sugli eccidi terribili e gratuiti nei triangoli rossi emiliani e veneti, a guerra finita.

Credo che, se non ci fosse stata la sua seconda moglie, l’ex sindacalista della Cgil e scrittrice Adele Grisendi - la sua dopamina naturaleGiampaolo sarebbe presto probabilmente sprofondato nel gorgo della depressione causata dal pregiudizio dei suoi. D’altronde, lo ammise lui stesso: «Sono un vero ingenuo. In questi anni ho sempre pensato che, prima o poi, la sinistra si sarebbe resa conto di una verità: una lettura serena della guerra civile non era soltanto un obbligo etico o politico, ma rientrava pure nei suoi interessi di botInfatti, il parlare di quella tragedia con equità, e senza soffocare le voci dei vinti, le avrebbe dato un’immagine più liberale. E soprattutto meno arrogante, meno proterva, meno ringhiosa. Mi sono sbagliato». Sì, si era davvero sbagliato.

I colleghi di mille battaglie un secolo prima, lo apostrofarono come «eretico«, «falsario», «copione». Perfino Giorgio Bocca, in un’intervista che spunta tra le pagine del libro di Giampaolo Non è storia senza i vinti gli diede dell’«opportunista» e del «voltagabbana». Infine, gli venne rivolta l’accusa più terribile, il mezzo retorico ideale per isolare qualcuno dal traffico universale delle idee e dal dibattito in pubblica piazza, cioè l’accusa di «fascismo». Fascista. Pansa.
Figurarsi.

 

Quando era a Libero, quindi negli ultimi anni della sua vita, tra una battutella e un consiglio a noi cronisti più giovani, Giampaolo ribadiva la sua missione risolutamente indirizzata all’idea che «la storia della Resistenza così come la conosciamo è quasi del tutto falsa e va riscritta da cima a fondo. Gli storici professionali ci hanno mentito».

Le guerre civili furono due: quella tra partigiani e fascisti, da un lato, e quella «condotta dai comunisti contro chi non la pensava come loro» dall’altro, come dichiarò a Aldo Cazzullo sul Corriere delle sera. Da lì la sua produzione impressionante di libri revisionisti sulla Resistenza, nel racconto rispettoso di quelli che avevano perso. Arrivò il momento in cui i denigratori, premendo sull’acceleratore, arrivarono a definirlo «dilettante». Dilettante. Pansa. Figurarsi.

Allievo di Alessandro Galante Garrone, laureato in Scienze Politiche proprio con una tesi in Storia moderna e contemporanea intitolata La Resistenza in provincia di Alessandria (1943-1945), Pansa per quel lavoro ottenne il Premio Einaudi e la pubblicazione con l’editore Laterza che ne apprezzava la meticolosità nel controllo delle fonti. Di tutte le fonti, ivi comprese le tedesche e le fasciste. Praticamente fu uno scossone alla storiografia resistenziale: tutto quel mondo gli si rivoltò addosso per azzannarlo alla gola, alla faccia delle tanto decantata «memoria condivisa».

NEL DIMENTICATOIO
A distanza di oltre 21 anni dalla prima pubblicazione, la rinnovata lettura de Il sangue dei vinti rappresenta l’occasione per le nuove generazioni per conoscere il lato oscuro della Resistenza dopo il 25 aprile, in un viaggio onesto e drammatico alle pendici della Storia: dalle vendette mirate contro i fascisti alle stragi di innocenti, finite drammaticamente nel dimenticatoio a galleggiare nell’imbarazzo di un’unica parte politica. 

E tutto questo perché, per la prima volta, nelle vesti degli aguzzini e dei seviziatori, tra il maggio del 1945 e la fine del 1946, svettavano alcuni dei partigiani che avevano ufficialmente liberato il Paese da nazisti e fascisti. E quelle storie estratte dalla tenebra di stupri e di torture, di cadaveri irrisi e violati, di fucilazioni di massa ed eccidi inverecondi erano venute alla luce grazie a qualcuno che era sempre stato, ben solido, da questa parte della barricata.

Poi c’è tutto il coté del Pansa giornalista, ma finiremmo fuori tema, e l’emozione sarebbe troppo forte.
Il fatto di vederne, in questi giorni (e continuerà fino al 25 aprile, presumibilmente) così calpestata la memoria fa male a Giampaolo, ma soprattutto a qualsiasi brandello di dignità ancora rimasta a questi sedicenti, terribilmente idioti, “partigiani” senz’anima...

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