Primo Levi ripubblicato anche il lingua ebraica
Rileggere Primo Levi di questi tempi a Gerusalemme, Tel Aviv, Haifa, Sderot, ma anche a Roma, Parigi, Berlino è un esercizio di sofferenza intellettuale. Attuale come non mai la ripubblicazione di “Se questo è un uomo” - ritradotto in ebraico e riproposto in Israele dallo scrittore Meron Rapoport - offre uno spunto nuovo al racconto asciutto dell’olocausto. Levi, deportato a soli 24 anni quando fu catturato dalle milizie fasciste e internato nel campo di Fossoli, sconvolge già dalle prime righe. L’incipit del libro è: «Ho avuto la fortuna di essere deportato ad Auschwitz solo nel 1944». La spiegazione è semplice: il timido chimico piemontese, non fu dirottato a Birkenau. La sorte scelse per lui «Auschwitz III, i cui prigionieri i tedeschi volevano sfruttare come schiavi piuttosto che ucciderli immediatamente. Fu anche una fortuna di Levi che le sue qualifiche professionali di chimico gli permisero, diversi mesi dopo il suo arrivo, di ottenere un lavoro in un laboratorio riscaldato, grazie al quale sopravvisse», ricostruisce il giornalista Noam Sheizaf nella recensione pubblicata a inizio aprile dal quotidiano progressista Haaretz. La riproposizione di “Se questo è un uomo” porta in dote un mistero editoriale. Alla prima edizione stampata in Israele, nell’edizione ebraica del 1988 (tradotta da Itzhak Garti, pubblicata da Am Oved), venne imposto il titolo “Is This a Man?”.
Fu cambiato forse per un guizzo editoriale. Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, dopo tanti morti (in Israele come a Gaza), dopo i rapimenti di massa, dopo l’avvio di «una guerra globale a frammentazione» (copyright Papa Bergoglio), ripubblicare la storia di un uomo precipitato in un campo di sterminio è un atto politico. Una presa di posizione. Nel dicembre 1945, subito dopo il ritorno a Torino, Levi si mise all’opera, quasi a svuotarsi con quello che lui stesso definì, nella prefazione, un «impulso immediato e violento». Un libro scritto al contrario. La stesura inizia con il capitolo finale. Con la liberazione. O meglio da quell’intervallo di appena 10 giorni tra la partenza dei nazisti e l’arrivo dei russi. Fu già un miracolo che Levi non finisse in una fossa comune come milioni di deportati. Ma solo per un caso: «Era ricoverato nell’ospedale del campo con la scarlattina (e quindi non fu incluso nella marcia della morte nella quale quasi tutti gli altri prigionieri morirono o furono assassinati). Negli 11 mesi successivi i restanti capitoli del libro furono completati». Chi ha ripreso in mano il libro non si è limitato a lavorare sulla traduzione dall’italiano all’ebraico. Ma è riuscito a ricostruire l’impegno per arrivare alla pubblicazione: «La casa editrice Einaudi», ha accertato il caporedattore di Haaretz che ha tradotto anche Pier Paolo Pasolini, «rifiutò il manoscritto; l’autrice Natalia Ginzburg, che lavorava come lettrice presso la casa editrice italiana, ha detto a Levi che c’erano “troppi libri sul campo nazista”. Il libro, il primo di Levi, fu pubblicato da un piccolo editore; gran parte della prima tiratura rimase invenduta». Trascurata. Ignorata. Poi «nel 1958 Einaudi pubblicò una nuova edizione del libro, che iniziò il suo lento e persistente cammino fino a quando, negli anni Ottanta, fu riconosciuto come una delle opere più importanti scritte sull’Olocausto». La riflessione che offre oggi rileggere le pagine di Primo Levi, ha la potenza di uno schiaffo in piena faccia. Questa volta la deportazione- viene da pensare- si è trasformata in un attacco concentrico contro Israele. La superiorità tecnologica ha offerto finora uno scudo alla Terra di Giuda. L’attacco a saturazione degli iraniani, i razzi da Hezbollah lanciati dal Libano, i missili yemeniti.
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È impossibile non rendersi conto dell’attacco concentrico. Il dibattito intellettuale in Israele- dal Diario da Israele di Eshkol Nevo pubblicato a puntate sul Corriere delle Sera al “dilemma di resistere nella fortezza o aprirsi alla pace” raccontato da David Grossman sulle colonne di Repubblica - è sofferente, profondo, doloroso, attuale. Ogni volta che qualcuno si alza e ripete dal “mare al Giordano” bisognerebbe ricordarsi i morti. Tutti i morti. Un giorno anche di questi morti dovremo renderne conto. Scrive Levi: «Siamo sopravvissuti al Faraone, sopravviveremo anche a questo». Quasi 80 anni dopo, fa emergere Meron Rapoport, dobbiamo «scavare più a fondo, per senso di responsabilità e onestà interiore di fronte all’orrore». Noam Sheifaz conclude la recensione assicurando che «Israele non sta sterminando sistematicamente i palestinesi come i nazisti fecero con gli ebrei, noi israeliani non siamo prigionieri indifesi e Hamas non rappresenta una minaccia esistenziale». Hamas magari da sola no. Però basta buttare un occhio su una cartina geografica per rendersi conto di come Haaretz sia circondata, in ebraico Haaretz è letteralmente “La Terra”. Due popoli, due Stati è ancora valido?
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