Alessandro Gassman
Nel cognome del padre. Alessandro Gassmann è un attore prolifico quanto impegnato. È il figlio di Vittorio, il mattatore, con Alberto Sordi, che però non ha lasciato eredi di sangue, il mostro sacro del cinema italiano. Talento quasi inarrivabile; infatti Alessandro, che oltre a essere bravo e simpatico è anche furbissimo, neppure ci ha provato a mettersi in competizione con il genitore.
È vero che l’enfant prodige ha iniziato a far cinema che ancora non era un uomo, a 17 anni, nel 1982, diretto dall’illustre consanguineo in Di padre in figlio, racconto autobiografico di famiglia per farci credere che le star, in fondo in fondo, hanno gli stessi problemi delle persone normali. Però gli va riconosciuto che di strada da allora ne ha fatta, costruendosi un percorso alternativo. Vittorio amava confrontarsi con il peggio degli italiani, mettendo in scena dei tipacci, quando non addirittura dei manigoldi, solo talvolta riabilitati da qualche sensibilità umana. Alessandro ha per lo più preferito personaggi positivi, come il commissario dei Bastardi di Pizzofalcone o Un professore di filosofia che educai ragazzi in una serie tv di grande successo. Sì certo, con quel sorriso e quel fisico, anche tante facce da schiaffi, ma in fondo quasi sempre simpatiche canaglie o cattivi macerati dal dubbio più che veri angeli del male.
VANTAGGI DI OGGI
Su una cosa tuttavia l’allievo può eguagliare, forse superare, il maestro. Vittorio ha interpretato oltre 130 film in carriera. Alessandro si sta mettendo d’impegno per fare di meglio: è già a quota ottanta, e sta intensificando il lavoro. Il primo è stato aiutato dal fatto di vivere, oltre che interpretare, la stagione d’oro del cinema italiano. Quando è stato il suo momento, con i film si diventava ricchi riempiendo le sale di pubblico e le produzioni si finanziavano da sé o in banca, senza porgere il becco a pizzicare le strabordanti mammelle delle casse pubbliche. Il secondo deve barcamenarsi in tempi di ristrettezze, botteghini vuoti, concorrenza spietata. Però gode dello straordinario vantaggio di poter recitare in lavori pesantemente sovvenzionati dallo Stato in nome dell’arte e, conti alla mano, se lo prende tutto: le produzioni a cui il non più giovane Gassmann ha preso parte negli ultimi otto anni hanno incamerato quasi 41 milioni di stanziamenti pubblici.
D’altronde da quando, nel 2017, l’allora ministro dem della Cultura, Dario Franceschini, ha varato la riforma del tax credit, che ha garantito al cinema oltre 7,2 miliardi pubblici in otto anni, più di quattro destinati a finanziare le produzioni, Gassmann figlio- junior non si può dire perché quel titolo ormai spetta a Leo, musicista e attore, la terza generazione -, ha preso parte a oltre venti lavori sovvenzionati. Così fan tutti, per carità. Lui lo fa spesso e non tutte le opere lasceranno traccia indelebile nella storia del cinema come I soliti ignoti, La grande guerra o Il sorpasso, solo per citare tre dei capolavori immortali di papà. Di padre in figlio, per citare l’opera prima, dobbiamo accontentarci di Mamma Natale, I casi dell’avvocato Guerrieri o Il pataffio, tutti comunque finanziati dallo Stato con oltre due milioni di euro. I veri investimenti pubblici in perdita però sono stati altri. Il milione speso per Billy dell’esordiente Emilia Mazzacurati, anche lei figlia d’arte, del compianto regista Carlo, per esempio. Alessandro nella pellicola è un rocker in ombra da anni, e qui lo sforzo interpretativo per un presenzialista come lui dev’essere stato intenso, che riporta alla vita un ex bimbo prodigio. Una fatica premiata in sala da un incasso inferiore ai 50 mila euro.
Non che il nostro, quando si è cimentato da regista e sceneggiatore, abbia saputo fare gran meglio. Centotrentamila euro al botteghino contro un milione e mezzo di finanziamenti pubblici per Il silenzio grande, storia del declino economico di uno scrittore in crisi d’ispirazione al quale i parenti stretti vogliono vendere la villa. Purtroppo per il protagonista del film, costretto a cedere il gioiello di famiglia, lo Stato non è con chi scrive altrettanto generoso come con chi si cimenta dietro la macchina da presa.
Chi però ha fatto davvero incetta di soldi è il suddetto Un Professore, tre stagioni finanziate su per giù con tre milioni l’una, con Alessandro stavolta anche lui mattatore, con un cachet a episodio - ogni serie ne ha una dozzina- stimato intorno ai 20 euro, anche qualcosa di più. Discorso analogo per I bastardi di Pizzofalcone, produzioni di successo che costano oltre i dieci milioni di euro. Una cosa va precisata. Alessandro è un vero protagonista del cinema contemporaneo, lavora tanto, ma non è attore che fa cassetta. Da qui il ruolo salvifico del finanziamento pubblico. Infatti il suo cachet è inferiore a quello di colleghi più impegnati, come Elio Germano il rosso, che viaggia sui trecentomila euro a film o Pierfrancesco Favino, che quella cifra ha raggiunto da almeno tre lustri.
Ma “Picchio”, come chiamano nell’ambiente l’interprete di Hammamet o Il traditore, è una star internazionale, a differenza di Gassmann figlio, che infatti deve accontentarsi di ingaggi pagati la metà. Certo poi si instaura un circolo monetario virtuoso: fare tanti film ti fa conoscere, ti procura inviti a pagamento, spot, aiuta a vendere libri, un indotto che fa di Alessandro un professionista che non si può lamentare.
Infatti, caso strano per uno come lui che ama intervenire sulla qualunque, il “professore” non si lamenta. Nell’appello firmato di recente da 94 artisti per incontrare il governo e convincerlo a non limare il denaro per il cinema, arricchito nei giorni seguenti dalle firme quasi spontanee di altri 200 volenterosi, il nome Gassmann spicca per l’assenza. Ufficialmente non si sa come l’attore la pensi in merito, anche se è lecito immaginarselo. Forse ha deciso di far combattere ad altri la propria battaglia, divenuta troppo politicizzata e non si sa quanto gradita al vasto pubblico delle serie tv e del cinema anche un po’ disimpegnato al quale il nostro si rivolge.
SINISTRA PIÙ REDDITIZIA
Più sicuro cavalcare le polemiche sull’antifascismo. È noto che Alessandro si è indignato per il convegno “Remigration Summit” ospitato il 17 maggio scorso dal teatro di Gallarate, al quale hanno partecipato nazionalisti italiani, olandesi, francesi e austriaci e dove l’eurodeputato Roberto Vannacci ha recapitato un videomessaggio. L’attore ha intimato al primo cittadino della città lombarda, il leghista Andrea Cassani, «se in futuro intende ospitare altre manifestazioni con slogan razzisti e illiberali in un luogo di cultura, di togliere l’intestazione della struttura a mio padre, che ebbe parenti deportati e uccisi dai nazifascisti». Il sindaco ha replicato che forse papà Vittorio, «uomo eclettico», non la peserebbe così e «non avrebbe combattute le idee altrui con la censura».
Nessuno può dire chi dei due abbia ragione. Il bastian contrario segnale che, dal palco del concertone del Primo Maggio, in piazza San Giovanni, Leo terza generazione ha fatto il pieno di applausi intonando Bella Ciao. La storiografia tarocca dice che è una canzone dei comunisti partigiani e ormai la cosa è data per assodata. La storia ufficiale racconta che i comunisti partigiani trucidarono 129 sacerdoti cattolici.
Solo una ristretta minoranza delle vittime aveva simpatizzato con il fascismo, cosa che comunque non trasforma una fucilazione da crimine di guerra ad atto di giustizia, mentre la maggioranza è stata assassinata per ragioni personali o ideologiche. Non risulta che il Vaticano abbia chiesto al Comune di Roma di far cambiar nome a Piazza San Giovanni se la Cgil si ostinerà a far cantare un inno tanto caro anche a massacratori di preti innocenti. Dio perdona, Alessandro Gassmann no. Ma quello non era Terence Hill, alias Don Matteo? Viviamo in un mondo sempre più confuso.