Lovecraft, la versione meno conosciuta dello scrittore: i suoi incubi in versi

Raccolte in un volume le oltre 500 composizioni che il maestro dell’horror ha scritto durante la sua vita. Opere in cui incanalava tutte le sue angosce
di Marco Respintivenerdì 13 giugno 2025
Lovecraft, la versione meno conosciuta dello scrittore: i suoi incubi in versi
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Howard Phillips Lovecraft, il maestro dell’inquietudine che pastura e tortura il lettore a dosi per nulla omeopatiche di paura fino a travolgerlo con l’orrore che lascia esanimi, era un perdente. Sfornò racconti che pubblicava bulimicamente su periodici immancabilmente pulp, così detti per la cartaccia su cui erano stampati giacché immeritevoli di sopravvivere (oggi però da collezione), ma in vita pubblicò un libro solo, The Shadow Over Innsmouth, e solo cinque mesi prima di morire. Mai lo avrebbe proposto a un editore, giudicandolo scritto male, e invece nel novembre 1936 uscì. Si lamentò dei refusi, fece aggiungere gli «errata», ma pure quelli erano un cimitero. La critica, poi, gli ha sempre sparato ad alzo zero. Da vivo. Da morto invece pure: fece scuola il vate dei critici statunitensi, Edmund Wilson, che dei suoi racconti disse lapidario come una tomba: «L’unico vero orrore presente nella maggior parte di queste storie è l’orrore del cattivo gusto e della scrittura scadente».

IL SETTECENTO INGLESE
Certo, il grande Wilson ci capiva poco, avendo in una sola vita inciso sulla propria penna dal cane sempre armato altre tacche profonde come le stroncature di Arthur Conan Doyle, Agatha Christie e J.R.R. Tolkien, ma questo è un discorso diverso, e Lovecraft resta un perdente. Riteneva che la poesia fosse la sua vena vera, ma nel 1918 uccise i propri versi come una «massa di robaccia mediocre e miserevole». Che senso ha, allora, un distillato ragionato e raffinato di quasi 500 pagine dalle oltre 500 poesie di Lovecraft come Canti dall’Altrove. Poesie e scritti del Maestro di Providence che due esperti quali Pietro Guarriello ed Emilio Patavini curano per i tipi de il Palindromo di Palermo, arricchendolo pure di appendici importanti? Apparentemente non ha alcun senso.

L’apparenza però quando può inganna, e farneticherebbe chi cestinasse questo sforzo su Lovecraft come lo stesso Lovecraft avrebbe fatto. Da noi la poesia lovecraftiana è poco nota. Nell’iniziare a colmare la lacuna, Guarriello e Patavini ricordano che lo scrittore, pur considerandosi al massimo un buon imitatore vuoto, fu tutt’uno con il verso dai sei anni fino ai suoi ultimi giorni convincendosi di vivere nel Settecento inglese. Amava, adorava quell’epoca, e la idealizzava da aristocratico in una bolla di sapone. Scriveva lettere che retrodatava di due secoli. Oltre a John Dryden e Alexander Pope stimava pochi altri. Imitava la loro lingua arcaica come un gentleman di Albione nelle colonie nordamericane e coltivava, come quei coloni, i classici greci e latini. Ovviamente monarchico, quasi reazionario, pubblicò la miscellanea The Conservative. Durante la Grande Depressione s’invaghi del “socialismo” dell’era rooseveltiana, ma alla scuola del senatore Democratico del Wisconsin Robert M. LaFollette, nazional-sinistro e anti-establishment da sembrar fascista di quel fascismo che Lovecraft ammirò (e del resto un po’ di LaFollette si è insinuato in alcuni ambiti della Destra americana). Anche l’ateismo di Lovecraft assomiglia all’irreligione di certa Inghilterra tory e materialista, ed english pare pure il suo razzismo acre (vedi Houston Stewart Chamberlain). Ma quell’anglismo specioso in cui Lovecraft si rintanò percependolo come l’ultima dimora accogliente forse finì per tramutarsi in gabbia. Lì pensava di respirare, ma soffocò. L’illusione divenne forse alienante e la poesia suo veicolo si fece forse estraniante. Forse il nulla mal coperto dal manierismo gli si rivelò orrido e il miraggio svanito dei parapetti che aveva piantato per difesa dal mondo forse lo fece uscire di strada.

L’INCUBO COSMICO
Nelle Meditazioni metafisiche (1641), Cartesio ipotizza iperbolicamente che, se un genio malvagio instillasse negli uomini l’idea che tutto sia inganno, solo la certezza ultima della dimostrazione dell’esistenza del Dio-Verità garantirebbe alla ragione la conoscenza del reale. Ma se illusorio fosse il Dio-Verità, il genio malvagio rivelerebbe proprio l’incubo cosmico lovecraftiano dove l’uomo è preda di divinità oscene adorate con la bestemmia e soprattutto indifferenti. Sì, Lovecraft è stato in radice un poeta. Forse quando si rese conto che imitare idoli idealizzati non soddisfaceva la fame di vita, le pareti del suo abbaino solitario e onirico nel cosmo parallelo di un paradiso di cartapesta hanno spalancato la bocca di un inferno altrettanto di cartapesta che ancora una volta lo scrittore ha preso per vero. Fu allora che Lovecraft divenne un loser, certo di talento iperuranico, e la sua poesia si fece parabola. Suo ideale e sua maledizione, suo Cielo e suo Ade, la poesia, allucinazione e risveglio in un incubo, non gli bastava, ma come di una droga non seppe farne a meno. La chiusa di Providence anno 2000, la prima poesia che pubblicò, nel 1912, è già un suggello: «“Un mostruoso prodigio”, il tizio sospirò:/ Ultimo della mia specie, un uomo solo e infelice, Smith mi chiamo!». È forse nella strabordante produzione poetica di Lovecraft che va cercata l’ermeneutica adeguata alle sue angosce incontenibili.