Sigfrido Ranucci verso La7. Una voce, poco più che una suggestione o, ancor più semplicemente, il racconto di un incontro tra un autore (Ranucci) e l’editore del suo libro, Urbano Cairo. Eppure ormai i nervi della sinistra sono scoperti a tal punto che, quando si parla di Rai, basta un nulla - specie se di mezzo ci sono Report e il suo conduttore - a scatenare infinite colate d’inchiostro. Stavolta con una parte diversa affidata al protagonista- che è sempre lui, Sigfrido il ribelle- immerso nel ruolo del martire... a prescindere. Roba che, se fosse letteratura, si parlerebbe di autofiction. Al punto che il buon Ranucci, talmente calato nel ruolo dell’agnello sacrificale, nel tardo pomeriggio, ha proferito solo poche parole sulla questione, augurandosi nel caso di un suo addio, la possibilità di scegliere il suo erede.
A far fede - in assenza di altre conferme, anzi, semmai in presenza di mezze smentite da parte di fonti vicinissime allo stesso Cairo - per tutto il giorno è rimasta solo l’arcinota indignazione di Ranucci, ormai certificata da mesi. Tutto ciò nonostante al martire manchi in realtà proprio il martirio. Perché Ranucci farà ancora Report. E, fino a palinsesto contrario, lo farà in Rai. Tutto ciò, però, non conta nulla di fronte all’idea di narrazione che hanno ormai bell’e costruita a sinistra. L’immagine di un Sigfrido sempre con un piede pronto ad andare altrove, in lidi migliori rispetto a quella Rai ormai matrigna che a distanza di poco tempo - secondo la retorica sinistra di Ranucci & co. - si è macchiata prima della colpa di aver tagliato puntate e repliche di Report, poi del (potenziale) svuotamento della sua storica redazione, qualora i suoi collaboratori aderiscano al concorso Rai per la stabilizzazione di 120 giornalisti. È bene ricordare che non sono obbligati.
Fatto sta che ben prima che l’ombra di qualsiasi reale notizia si fosse manifestata, la processione dell’ennesimo martire autoimmolatosi sull’altare della libertà d’espressione era già più che partita.
È bastato un lancio di agenzia che nella tarda mattinata di ieri preconizzava l’incontro Ranucci-Cairo - avvenuto o di là da venire - nel corso del quale l’editore di La7 potrebbe proporre al giornalista la realizzazione di un programma di inchieste, varie seconde serate e la realizzazione di instant book. Ad aprire il coro lacrimoso è stata Barbara Floridia, esponente M5S, presidente della Commissione Vigilanza Rai che ha tuonato: «Se davvero la Rai dovesse perdere Ranucci, saremmo di fronte a un segnale devastante: lo smantellamento progressivo del servizio pubblico e l’appiattimento totale dell’informazione ai desiderata del governo Meloni.
Sarebbe la conferma di una deriva in cui la professionalità viene sacrificata sull'altare del controllo politico. Non si può ignorare il clima soffocante in cui Ranucci e la sua redazione sono stati costretti a lavorare: attacchi continui da ministri ed esponenti di governo, nessuna parola di difesa da parte dei vertici Rai. Addirittura Fratelli d’Italia ha querelato la trasmissione». Praticamente l’icona del martire perfetto. Fatto sta che, nella rincorsa di dichiarazioni, dopo la Floridia iniziano a succedersi invece proprio voci interne alla Rai. Ovviamente dal fronte dei simpatizzanti di Ranucci come i membri del cda Roberto Natale e Alessandro Di Majo secondo i quali sarebbe addirittura «impensabile che il servizio pubblico faccia a meno di Ranucci». Nel pomeriggio sono arrivate le sentenze pre-funeree del cdr del Tg3: « Sarebbe l’ennesimo e gravissimo episodio di impoverimento della nostra azienda e, in particolare, della nostra Rete la cui identità è stata già ampiamente erosa negli ultimi anni. Pretendiamo dall’azienda che faccia tutto il possibile per dare al nostro collega e alla sua squadra le migliori condizioni di lavoro, salvaguardando spazi di libertà e indipendenza, elementi essenziali della vita democratica del Paese». Dello stesso tono le parole del sindacato Usigrai che va all’attacco del governo: «Se ora anche Ranucci fosse costretto ad andare via vorrebbe dire che questa Rai davvero non ha in mente alcun tipo di rilancio del servizio pubblico ma una Rai sempre più al seguito di quella parte politica che vive il giornalismo di inchiesta come un intralcio». A compiere l’opera arrivano le frasi sanguigne del responsabile comunicazione del Pd, Sandro Ruotolo che parla dell’eventuale addio di Ranucci come di una «ferita profonda», andando a testa bassa contro la solita TeleMeloni. Dove però, salvo sorprese, a fine serata nulla ancora era cambiato e Report resta saldamente nelle mani del suo conduttore che, oltre ad essere ancora assai potente, vuole addirittura strafare, fino all’onnipotenza, auspicando, in maniera sibillina, nel caso di un suo eventuale addio, la possibilità di incoronare lui stesso il suo successore. Non male per uno che continua ad essere dipinto come il martire costretto alla fuga dalla tv al servizio di un regime liberticida. Per ora, dunque, la processione può pure rientrare. Domani chissà.