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Mario Sechi: rimettiamo l'uomo al centro del progetto

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Nel 1995 Francis Fukuyama pubblicò un libro intitolato Trust dove indicava come un esempio di vitalità la struttura della società e del capitalismo italiano, fatto di aziende medio -piccole, con una lunga storia di famiglia. Le grandi imprese non assicurano automaticamente la migliore crescita e produttività di un Paese (tendenze negative che l’Italia deve in ogni caso contrastare). E nell’era post -industriale le piccole imprese sanno reagire meglio alla crisi, sono rapide nella risposta e «hanno creato la maggior parte dei posti di lavoro negli ultimi due decenni». Si dirà che il mondo è cambiato, ma trent’anni dopo gli esiti imprevisti della globalizzazione, il ripiegamento delle democrazie, l’ascesa degli autocrati, la profonda crisi della società americana, consigliano prudenza sulle progressive sorti e le formule magiche degli economisti da tavolo.

Le pagine di Fukuyama mi sono tornate in mente durante la lettura di un articolo dell’Economist dedicato alla crescita italiana, alle nostre imprese e alla riforma del mercato dei capitali del governo Meloni. Nel mondo della finanza internazionale (epicentro a Londra) la riforma è considerata protezionista, penalizzante nei confronti degli investitori esteri, naturalmente di destra e dunque cattiva a prescindere. Non c’è alcun dubbio che la Borsa italiana abbia bisogno di crescere, che troppe aziende di prestigio siano passate di mano a investitori esteri (e dunque lo status quo non va bene), ma il governo non ha alzato il ponte levatoio del castello, punta invece a limitare le derive speculative, evitare delocalizzazioni fiscali (tra i casi più noti, Exor e Ferrari, gioielli della famiglia Agnelli, che sono diventati improvvisamente apolidi, cosmopoliti e no border), incentivare la quotazione delle aziende, impedire la surreale autocrazia dei consigli d’amministrazione che si auto-perpetuano e de facto annullano i diritti degli azionisti e le aspettative degli investitori di lungo termine. Avrà successo?

Non lo sappiamo, ma una cosa è certa: l’economia italiana ha resistito a shock multipli di portata storica (pandemia, guerra, crisi energetica), siamo usciti dalla crisi più forti e reattivi di tante altre nazioni. La posta in gioco non è la riforma (la legge sui capitali è solo uno strumento) ma il cuore dell’impresa italiana, la struttura e organizzazione dell’industria, la sua storia, la sua originalità nata con le “botteghe” del Rinascimento, il sapere delle arti e dei mestieri che nel corso dei secoli è diventata eccellente manifattura, potenza trasformatrice e esportatrice. Il capitalismo italiano non è quello del mondo anglo-americano, regolarlo con i codici di Harvard e leggerlo con gli occhiali di un finanziere della City è prima di tutto ridicolo e poi pericoloso.

IL FILO ROSSO
C’è un filo rosso che lega le trasformazioni in corso in vari settori chiave dell’industria, un’offensiva condotta su quattro punti d’attacco: ideologico, legislativo, tecnologico, finanziario. L’ideologia è quella che prescrive una transizione energetica a tappe forzate verso un “nuovo mondo” asettico, de-carbonizzato al punto da diventare distopico; questa cultura diventa legge valida per tutti gli Stati dell’Unione europea nei provvedimenti della Commissione e nelle leggi votate dal Parlamento europeo, Bruxelles è l’officina legislativa; la piattaforma tecnologica è rappresentata dalla convergenza dei titani del calcolo e del digitale verso il settore della farmaceutica, del biotech e dell’intelligenza artificiale. Il corpo e la mente, hardware e software, Terabyte e molecole. Il motore di questo cambiamento esponenziale, accelerato e compresso, è il denaro delle grandi istituzioni finanziarie che spostano i loro capitali volanti in tempo reale, scommettono su un futuro che non prevede alcun elemento “divergente” perché il fulcro di tutto è la “standardizzazione”. E l’anima? Essendo non governabile, soggetto e non oggetto, ha bisogno di continui stimoli “artificiali”, dai farmaci al cibo in tavola.

L’OPERAIO E IL CONTADINO
L’agricoltore in trattore che protesta a Sanremo, l’operaio dell’auto prodotta a Mirafiori che è preoccupato per il suo posto di lavoro, l’imprenditore del settore degli imballaggi che potrebbe chiudere la sua fabbrica per il diktat europeo sull’utilizzo della plastica, sono le conseguenze inattese di una “macchina” che non fa prigionieri. La politica europea deve rimettere l’uomo al centro del suo progetto. Massimo Cacciari ha descritto con efficacia sulla Stampa questo processo: «La standardizzazione è il primo passo alla universale “artificializzazione”. Più la norma è astratta e rigidamente vincolante, più è difficile seguirla per il produttore tradizionale e facile, invece, per chi opera con grandi mezzi e su larga scala».

Non è vero che non ci sono differenze tra destra e sinistra, perché in questo scenario le posizioni politiche sono visibili e seppur viziate dalla propaganda, hanno un grande significato per oggi e soprattutto domani. La protesta degli agricoltori è solo la punta dell’iceberg, ma è la parte sommersa quella più grande e profonda. La fine degli -ismi del Novecento, la destrutturazione dei partiti, non ha azzerato le ideologie, si stanno semplicemente ricreando su nuove basi, parole d’ordine. Nuovi totem e tabù emergono come isole nell’oceano della nostra esistenza. Si può decidere di non stare né da una parte né dall’altra, di assumere una comoda posizione da spettatore, sto alla finestra e vedo che succede, ma agli ignavi non sarà riservato un posto migliore. Il dibattito del presente, il rumore della nostra Babele contemporanea può sembrare un urlo incomprensibile, ma se si ascolta bene l’uomo della strada, allora le parole si fanno improvvisamente chiare, l’inquietudine diventa leggibile. Le elezioni europee e il voto americano sono un appuntamento dell’Occidente al bivio della strada, è lo smarrimento dell’Essere che si scopre di Non-Essere. Sarà un anno straordinario, viviamo tempi interessanti. Forse troppo.

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