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Sorelle spaiate, Lucia Esposito e un legame che sfida la morte (custodito per 30 anni)

Mario Sechi
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Preparatevi. Vi serviranno the e caffè, camomilla e tranquillanti, perché andrete avanti, avanti e ancora avanti. Fino all’ultima riga. Preparatevi. Per superare la fine del romanzo che Lucia Esposito ha scritto dopo quasi trent’anni di attesa. Preparatevi. Alle vite parallele, ai diari incrociati, ai destini intrecciati, alle lettere mai spedite delle Sorelle spaiate. Preparatevi. A una storia vera.

Il pre-testo di ogni storia vera è un precetto: i cronisti non rinunciano al «chiodo», per appendere il quadro del racconto devi vedere, perché inventare è «tradire» il primo comandamento («amerai la cronaca sopra ogni cosa»). La violazione del codice interiore è un furto con scasso degli intellettuali che sulle loro meschine bugie ci marciano, ma un reporter non se lo può permettere, dietro l’angolo c’è il rimorso per sempre. Da qui comincia la storia della prima sorella di noi tutti, Viola, dal trip del giornalismo, dai fatti scartavetrati sulla carta. Ieri, oggi, domani. Prima di Sorelle spaiate, c’è una sequenza di combinazioni, treni in partenza e in arrivo, il destino che gioca a dadi, il «c’era una volta».

Tutto cominciò quando Lucia Esposito si presentò a metà degli anni Novanta in redazione al Giornale per uno stage in cronaca di Milano, io occupavo «l’acquario» all’ultimo piano del palazzo di via Negri, la gabbia del capocronista, guidavo una folta squadra di matti di talento, fissavo turni di giorno e di notte, assegnavo servizi e facevo cazziatoni (rigiravo quelli che prendevo da Vittorio Feltri in riunione al mattino), disegnavo pagine nel pomeriggio, facevo titoli la sera, sceglievo foto, impaginavo bianca e nera, chiudevo le pagine in tipografia la notte. Restava perfino il tempo di una dormita, breve. Cose dell’altro mondo, in questo mondo. E là fece il suo ingresso anche Lucia, felina, con gli occhi d’ossidiana e la zampata sulla notizia. Decine di migliaia di titoli dopo, ci siamo ritrovati qui a Libero. Lei guida le pagine della cultura e ha scritto un romanzo con i controfiocchi, io insisto nell’errare incompiuto del direttore.

 

IL VIAGGIO

Che cosa è Sorelle spaiate? Lo chiedo a Lucia e lei- cresciuta nella sacra e profana rappresentazione a cielo aperto della lingua nelle lingue, la seduzione del napoletano - non confessa che è «una crime story», né ammette che è «un romanzo d’amore», men che meno esibisce le prove del Bildungsroman, il romanzo di formazione. Nossignore, siamo vicinissimi al tutto, ma così tanto prossimi (e approssimati) che lo sfiorare «la cosa» ti rende insonne per non averla abbrancata, interrogata in commissariato, l’opera. Vedi la pinna dello squalo saettante in pagina, le figure di un giallo che ti fa sobbalzare, la violenza e l’amore grondanti, e pensi a come siamo lontani dai pennuti dello Strega senza artigli, senza polmoni e coraggio per disfarsi in romanzieri.

Viaggi sul vagone del treno che attraversa il Belpaese e hai davanti agli occhi un magnete narrativo, il grande bagliore nato in cronaca, santo cielo, allora esiste ancora una possibilità per un romanzo italiano che è una storia vera, così profondo da intimare l’uso della tuta da palombaro. Alla stazione di Firenze si può tranquillamente dire che l’algoritmo di cui si riempiono la bocca quelli che adorano il totem tecnologico può andare a farsi fottere, qui c’è vita e morte, altro che scrittura automatica, andate a sostituire i fusibili della macchina, qui si gioca con quella cosa cantata da Lucio Dalla «Che fa morire a vent’anni /Anche se vivi fino a cento / Cosa sarà?». Bel dilemma, avrà pensato quel pescatore d’alto mare che all’anagrafe si chiama Antonio Franchini, direttore editoriale della Giunti. Ha arpionato una storia di quelle che ti trascinano negli abissi, Moby Dick.

 

IL TESORO

La caccia alla Balena comincia con Viola che vuol fare la giornalista e incrocia il diario di una ragazza albanese che cerca fortuna in Italia, il grande miraggio degli anni Novanta, storia nostra, conosciuta e accantonata. Le partenze, il dolce, il dolore, la grande illusione dell’amore che è inganno, denaro, carne, dolore, marciapiede, violenza spaccaossa, la memoria di sangue e inchiostro di Ershela, il tesoro inestimabile delle sue lettere che esondano nella bellezza della tragedia. Illusa da Helidon che le racconta la terra promessa, l’incarnazione della Bestia, Ershela è una creatura che spalanca i cancelli della sua anima alla sorella Alina in un epistolario mai giunto a destinazione. Una vita consumata e mai spedita, nascosta e ritrovata in Sorelle spaiate, l’affresco dove si affacciano diavoli e santi, preti e puttane, torturatori e investigatori. La ricerca della felicità è un dedalo dai mille inganni che nel romanzo si ramifica in una mappa del delitto: Napoli che diventa il teatro della sorellanza incompresa tra Viola e Chiara, un quadro che ha l’atmosfera delle pagine di Elena Ferrante; l’Albania, porto di partenza dei caduti del comunismo; Torino, impiombata nel grigiore del post-tutto; Milano, l’efficienza tentacolare che si dissipa nella fabbrica dei sensi; Roma, bellissima, decadente e sfrontata; Albissola, orizzonte di un viaggio infinito che è dramma corale, un urlo strozzato in gola. La storia di Ershela è la tessitura del tappeto volante della sorellanza, Viola e Chiara, Viola e Ershela, Ershela eAlina.

Tutti siamo a un passo dall’inferno, Ershela lo racconta nelle sue lettere, tutta la sua esistenza è esposta in un ciclo rovinoso di disperazione-rinascita-morte dove la firma in calce passa da «Ershela» a «Lulli, cioè nulla», il trapasso dal nome di battesimo a quello del marciapiede, dall’Essereal Non Essere,l’annullamento della persona nell’altra, quella costretta dai suoi aguzzini a vendere il suo corpo. Ershela è la sofferenza che svela il martirio di chi ha il cuore illuminato. In una lettera del 23 dicembre scrive che «a Natale si scopa lo stesso» e in questa disperazione totale c’è ancora una fiammella di speranza, lei che si accarezzala pancia gonfia, «la ragione della sua vita». C’è tutto l’amore e il male del mondo, in Sorelle spaiate, la fuga senza fine, l’amore non vissuto che diventa non-morto, zombificato, una maledizione. Il non-sense che muta in ironia agrodolce a Napoli, eccolo, un raggio di luce che ricorda Eduardo, dove un cartello recita «Vendo abbracci», mentre Viola, l’imperfetta cronista animata dal caos vitale, ritrova in un cerchio che si chiude,la parola della sorella Chiara, la perfetta infelice sposata a un nobile nulla con la servitù.  «Le cose, belle o brutte, si dicono», ripeteva Ershela. Sorelle spaiate è un fulminante romanzo, ci dice tutto. Preparatevi.

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