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Il Pdl salva Formigoni ma Alfano piega la testa a Maroni. La Lega strappa la legge elettorale con listino bloccato

Pomeriggio a nervi tesi: il governatore della Lombardia non si dimette, ma il segretario azzurro ha dovuto fare concessioni al collega. Alla fine è un pareggio 1-1

Giulio Bucchi
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Un pareggio 1-1, con una squadra, la Lega, all'attacco per un giorno e l'altra, composta da Roberto Formigoni e il Pdl, in difesa catenacciara. Alla fine, il governatore della Lombardia il suo gol l'ha segnato: non andrà a casa, non ora almeno. E il Carroccio mastica amaro, anche se il minimo sindacale l'ha ottenuto: l'azzeramento della giunta della Regione Lombardia. Il terremoto scatenato dall'arresto dell'assessore alla Casa Domenico Zambetti per aver comprato voti dalla 'ndrangheta si è placato, ma l'atmosfera che si respira a Roma, nella conferenza stampa tra Formigoni, il segretario leghista Roberto Maroni e quello del Pdl Angelino Alfano è di tregua armata. Detto che il governatore non si dimette ma che azzererà la giunta, dimezzandola (solo una delle richieste poste mercoledì sera dal segretario del Carroccio Lombardo Matteo Salvini), conviene partire dalla fine. La dura trattativa - L'ultimo a parlare è stato Alfano. Il segretario azzurro ha parlato di "tolleranza zero per chi sporca la bandiera del Pdl", ma la sensazione è che la conferma di Formigoni al suo posto sia una vittoria politica strappata alla Lega dopo un pomeriggio di trattativa serrata, febbrile. "Non si manda a casa una amministrazione che ha governato bene e governa bene", ha spiegato, ma il punto è un altro. Formigoni, in mattinata ospite a La telefonata di Maurizio Belpietro su Canale 5, aveva ribadito quanto trapelato qualche ora prima, a tarda sera: "Se la Lega mi vuole fare cadere, sappia che nel 2010 è stato stipulato un accordo politico e che con me cadranno anche i governi in Piemonte e Veneto". Dove, naturalmente, la Lega e in prima linea, con i governatori Cota e Zaia. Ma tra Alfano e Maroni, è corsa a chi veste meglio i panni del pompiere dopo un incendio clamoroso: "Da parte nostra non c'è mai stata nessuna minaccia di correlazione tra Lombardia e Piemonte e Veneto. Non è nostra abitudine muovere minacce nei rapporti con i nostri alleati", ha assicurato il segretario del Pdl. "Con la Lega c'è stato un dialogo a volte anche aspro, non privo di frizioni, ma schietto". Eufemismi, che fanno eco a quanto detto poco prima da Maroni: "La Lega non ha mai chiesto il voto ad aprile per le regionali in Lombardia. Se Formigoni si fosse dimesso saremmo andati al voto entro 90 giorni, non certo ad aprile". Quisquilie, perché mai come in queste ore quel che resta dell'asse Pdl-Lega ha rischiato di saltare in aria. La sensazione è che, fatti due conti, a nessuno dei due convenisse far saltare la Lombardia: il Pdl andrebbe a fondo nella regione più importante, il Carroccio godrebbe, rischierebbe di diventare il primo partito ma con le inchieste giudiziarie che incombono anche sul Carroccio chi assicura a Maroni di poter governare al Pirellone dopo le prossime elezioni? Il risultato sarebbe una vittoria di Pirro, con la beffa di vedersi tagliati fuori anche dai governi di Piemonte, Veneto, Friuli Venezia Giulia. Meglio un pareggio, insomma. La soddisfazione (parziale) di Maroni - "Abbiamo ottenuto quello che avevamo chiesto e abbiamo rinnovato l'impegno sulle cose da fare: in primo luogo la nuova legge elettorale regionale, che non preveda più il listino bloccato", ha commentato Maroni. E qui si capisce la contropartita politica dell'intesa su Formigoni. I tempi sono stretti: entro dicembre il varo della nuova legge elettorale lombarda, poi il confronto sul nuovo della futura giunta Formigoni. Solo dopo questi due passi, avverte Bobo, "decideremo se si potrà proseguire". Difficile che il Pdl faccia marcia indietro, dopo il mezzo miracolo romano.

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