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Trattativa Stato-Mafia, deposizione di tre ore di Giorgio Napolitano

Ignazio Stagno
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E' terminato il faccia a faccia tra Giorgio Napolitano e i pm del processo sulla presunta trattativa Stato-Mafia. La deposizione di Re Giorgio è cominciata poco dopo le 10.30 nella sala del Bronzino del Quirinale ed è durata circa tre ore la testimonianza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano davanti alla Corte d'assise di Palermo nel processo sulla presunta trattativa Stato-mafia nei primi anni Novanta. Una testimonianza di questo tipo non era mai avvenuta prima nella storia della Repubblica. Secondo quanto reso noto da un legale, Napolitano ha risposto a diverse domande delle parti e ad alcuni non ha risposto avvalendosi della facoltà di non rispondere in base alle prerogative del Capo dello Stato. Il faccia a faccia - Al Colle sono saliti il procuratore aggiunto, Vittorio Teresi, i sostituti Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene, e tra gli avvocati delle sette parti civili e dei dieci imputati, questi ultimi non ammessi dalla Corte a partecipare direttamente o in videoconferenza alla testimonianza del Capo dello Stato, ha varcato la soglia del Quirinale anche l'avvocato Luca Cianferoni, legale del boss di Cosa Nostra, Totò Riina.  La trattativa - "Giorgio Napolitano ha riferito che, all'epoca, non aveva mai saputo di accordi" tra apparati dello Stato e Cosa nostra per fermare le stragi, ha detto Gioivanni Airo' Farulla, avvocato del Comune di Palermo. "La parola “trattativa” non è mai stata usata" ha riferito ancora il legale, secondo il quale il capo dello Stato ha risposto anche alle domande dell'avvocato di totò Riina. Caso D'Ambrosio - Uno dei punti dell'udienza era raccogliere i ricordi del capo dello Stato su quel che gli scrisse, cinque settimane prima di morire improvvisamente, il suo consigliere giuridico Loris D'Ambrosio, nel giugno 2012, dopo essere stato sentito dai pm di Palermo. D'Ambrosio, che è morto d'infarto, era stato interrogato circa le sue telefonate con Nicola Mancino. Nella lettera a Napolitano, che è stata peraltro resa pubblica dal Quirinale, D'Ambrosio manifestava il suo timore di poter essere considerato "utile scriba di indicibili accordi" negli anni Novanta, quando come magistrato era in servizio prima all'antimafia e poi al Dap.

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