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I 7 GIORNI DI ALFANODal pranzo alla fiducia:ecco come ha piegato il Cav

Angelino Alfano

Andrea Tempestini
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I sette giorni che sconvolsero il centrodestra iniziano mercoledì 25 settembre a Palazzo Grazioli, intorno all'ora di pranzo. Silvio Berlusconi, al termine dell'ennesimo comitato ristretto coi maggiorenti del partito (tendenza falchi), opta per la linea dura, durissima: dimissioni in massa dei parlamentari del Pdl da consegnare ai capigruppo di Camera e Senato: se la giunta del Senato voterà la decadenza, partiranno le lettere. Il Cavaliere sente il cerchio politico-giudiziario che gli si stringe attorno: «Mi arresteranno, la sinistra vuole che vada in galera». Il Cavaliere vede una «azione eversiva» contro di lui. Le speranze che le larghe intese possano ancora costituire la cura dei suoi mali si fanno al lumicino, e la reazione è immediata. Talmente immediata da cogliere di sorpresa Angelino Alfano. Il vicepremier, quella mattina, è in Val di Susa in visita ai cantieri della Tav e viene messo a parte della svolta solo via telefono. Va ancora peggio al premier: in quei giorni, infatti, Enrico Letta si trova nel bel mezzo della missione in America, e apprende del precipitare degli eventi da una telefonata dello stesso Alfano. «Angelino», gli risponde furente, «guarda che se scoppia il casino io mi dimetto anche da qui». La prima notte di crisi cala su uno stallo nervosissimo. Giovedì 26 settembre è il giorno di Giorgio Napolitano. Che gradisce pochissimo la bomba piazzata dal Cavaliere sotto le gambe del governo, e scende in trincea per difenderlo. In un comunicato di diciotto righe appena, il capo dello Stato bolla come «grave ed assurdo» il riferimento di Berlusconi al golpe e, soprattutto, mette bene in chiaro che contrario era e contrario resta a sciogliere le Camere e che non ci sono dimissioni di massa che tengano. Berlusconi, nonostante la vicenda sia ormai innestata nei nervosismi e nelle guerre preventive scattate nel partito in vista del ritorno a Forza Italia, conferma in pieno le dimissioni di massa dei parlamentari e rilancia: parlare di colpo di Stato è «legittimo perché veritiero». Letta, di ritorno dagli Stati Uniti ed intuita la malaparata, sale al Colle per concordare con Napolitano il da farsi. La linea del premier, che troverà ampio appoggio al Quirinale, è quella di parlamentarizzare la crisi quanto prima per inchiodare il Pdl alle proprie responsabilità: «Chiarimento definitivo, senza se e senza ma», è la sintesi lettiana. La situazione precipita venerdì 27 settembre. Teatro del precipitare è Palazzo Chigi. Dove, davanti al Consiglio dei ministri riunito a sera, Letta decide di congelare lo stop all'aumento dell'Iva, per finanziare il quale pure parevano essere state trovate all'ultimo le risorse finanziarie necessitate. Con la spada di Damocle delle dimissioni di massa dei parlamentari pidiellini sulla testa (definite «atto incompatibile con una efficace azione di governo»), il premier non ha intenzione di avventurarsi su un percorso lungo e tortuoso come quello dell'Iva. Quando la notizia arriva a Palazzo Grazioli, i tamburi di guerra iniziano a rullare. La spallata vera e propria di Berlusconi arriva pertanto sabato 28 settembre. Tanto forte la deflagrazione della bomba dell'Iva che i falchi hanno gioco facilissimo nel convincere il Cavaliere che è giunta l'ora di alzare il livello dello scontro. Detto, fatto: Berlusconi salta sulla questione fiscale e fa dimettere i cinque ministri del Pdl. È qui che si segnalano le prime palpabili prese di distanze delle colombe. Fabrizio Cicchitto, al solito pioniere, contesta apertamente la decisione del capo. La delegazione governativa, in testa Alfano, prende la notizia tutt'altro che bene, ma per spirito di servizio tiene i mugugni sottotraccia. Domenica 29 settembre è il giorno della controffensiva lettiana. Il premier, ospite da Fabio Fazio su RaiTre, fa capire la propria intenzione di spaccare il Pdl in due: azzurri buoni, responsabili e votanti la fiducia da una parte e azzurri cattivi, berlusconiani e votanti la sfiducia dall'altra. Se il premier lancia il guanto di sfida è perché sa che la fibrillazione nel Pdl inizia a farsi sensibile. I ministri non fanno più mistero delle proprie perplessità (Alfano conia l'ormai celebre definizione di «diversamente berlusconiano») e il pressing delle colombe sul Cavaliere cresce di intensità: iniziano a girare le prime liste di senatori disponibili a votare per la sopravvivenza del governo e torna a farsi sentire la comunità internazionale. Al punto che Berlusconi offre un primo segnale di resipiscienza, dicendosi pronto a votare lo stop dell'Iva e la legge di stabilità. L'ottovolante va a tutto gas lunedì 30 settembre. Berlusconi insiste per la linea dura delle elezioni anticipate, ma ministri e colombe lavorano ventre a terra per costruire una rete di sicurezza. La situazione precipita in serata, quando Piazza Pulita manda in onda una registrazione di Berlusconi al telefono che accusa Napolitano di essere stato il regista della sentenza Mondadori. «Invenzione delirante e diffamatoria», è la replica del capo dello Stato. Tra Palazzo Grazioli e Quirinale scende il gelo. La vigilia della conta cade martedì 1 ottobre. Letta respinge le dimissioni dei ministri, Berlusconi spinge sulla sfiducia. A sera, la rottura con Alfano (e pertanto col fronte delle colombe al gran completo) è totale. Nonostante il toto-dissidenti segni quota 40 senatori (previsione della super-colomba Carlo Giovanardi), il Cavaliere alla fine (e nonostante i dubbi che iniziano ad affiorare) conferma la linea dura. E si arriva a ieri mattina. Alla piroetta decisiva che, sette giorni giusti dal fatale pranzo da cui tutto ebbe inizio, mette per il momento la parola fine alla crisi di governo più pazzesca della storia d'Italia, il che è tutto dire. di Marco Gorra

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