Silvio Berlusconi, la confessione spudorata di Antonio Ingroia: "Può vincere? Allora indaghiamolo"
Bisogna seriamente elevare un tributo ad Antonio Ingroia, perché ha finalmente spazzato via ogni paravento ipocrita sulle ragioni che spingono certa magistratura inquirente ad inquisire, reinquisire ed inquisire ancora l'eterno imputato Berlusconi Silvio. Fino all'impensabile, fino alla riapertura di un fascicolo arenatosi nel 2011 sul senso comune, prima ancora che sulle tecnicalità giuridiche, quello che vorrebbe il Cavaliere nientepopodimenoché mandante delle stragi mafiose del 1993, ovviamente in combutta con l'uomo nero che viene sempre buono in simili teoremi, Marcello Dell'Utri (un settantaseienne che sta marcendo in prigione nonostante il suo quadro clinico sia stato dichiarato incompatibile col regime carcerario, ma sono anticaglie da Stato di diritto). Una tragica boutade, più che un'indagine. A meno che non sussista un'altra spiegazione, a meno che per Berlusconi non valga un'interpretazione tutta particolare dell'obbligatorietà dell'azione penale. Quella che appunto fornisce, con indiscussa autorità in materia, l'ex pm poi politico sinistrissimo ed editorialista del Fatto Quotidiano, Antonio Igroia: «Berlusconi è tornato in piena attività politica, è stato determinante per l'approvazione della legge elettorale. E davanti a questo suo rinnovato impegno non si possono lasciare punti interrogativi». La riapertura dell'ennesimo procedimento è in queste condizioni «un atto doveroso». Cristallino, nemmeno Niccolò Ghedini è mai stato così esplicito nella descrizione dello schema scientifico che sovrintende in questo Paese alle inchieste su Berlusconi. Torna centrale nell'agone politico, torna “attivo” politicamente (termine apparentemente innocuo ma in realtà terribile, perché sottintende che per certi funzionari dello Stato l'unico Silvio buono sia il Silvio pubblicamente morto, che rinuncia passivamente alle sue idee e alla sua agenda propositiva per l'Italia)? Benissimo, siamo fattualmente obbligati a perseguirlo. È la fine di un bluff reiterato troppo a lungo, visto da subito da parte di noi spelacchiati liberali e garantisti, ma ostinatamente riproposto da loro, dal Comitato di Liberazione Nazionale dall'orco di Arcore in mobilitazione permanente, dai “resistenti” in toga secondo definizione borrelliana, l'autoproclamata parte sana del Paese. Applichiamo solo la legge, ci guidano l'uguaglianza dei cittadini di fronte al Codice e il supremo interesse della comunità a tutelarsi dalla notitia criminis in cui s'imbatte. Macché, la verità la dice oggi Ingroia, uno dei loro, e uno dei più intransigenti dentro il fronte degli intransigenti, per gli amanti dell'eufemismo. Se il Cavaliere si azzarda a fare politica, noi azioniamo la leva giudiziaria. Punto. È un meccanismo perfetto, un sillogismo lievemente zoppicante da un punto di vista della filosofia del diritto, e forse anche da quello della filosofia morale, ma efficacissimo nel campo della realtà effettuale, della politica praticata. È la coazione a ripetere in cui viviamo da più di vent'anni, è il passato che non passa del primo governo Berlusconi disarcionato da un invito a comparire spedito dalla Procura di Milano e strombazzato dal Corriere della Sera, ovviamente finito in nulla. O meglio perfettamente riuscito, come si deduce oggi dalle parole di Ingroia: il governo infatti cadde. È una dichiarazione a suo modo epocale, quella dell'ex magistrato, permette finalmente una riscrittura condivisa degli ultimi due decenni di storia repubblicana, da quel primo atto nel 1994 fino al processo Ruby, imperniato su interrogatori in cui si domandava ad adulti consenzienti se vi erano stati "toccamenti" all'interno di feste private. Il fine è sempre lo stesso, è quello per cui oggi ricicciano perfino l'accusa di strage: disincentivare Berlusconi Silvio da questo chiodo fisso di partecipare alla competizione democratica, magari fornendo un'alternativa credibile al fronte giustizialista e tassaiolo delle sinistre. Lo stesso in cui Antonio Ingroia si schierò in prima fila alle elezioni del 2013, col suo partito della “Rivoluzione civile” (di cui individuò il “profeta” in Ernesto Che Guevara), prendendo il 2,25% al Senato e l'1,79% alla Camera. No, è decisamente meglio fare politica direttamente dalle procure della Repubblica. di Giovanni Sallusti