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Gregorio De Falco, chi è il grillino che ha dichiarato guerra a Matteo Salvini

Gino Coala
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Ma chi si crede di essere, Gregorio De Falco? E sopra tutto, chi è, se non l' altrimenti anonimo ex capo sezione operativa della Capitaneria di porto di Livorno divenuto celebre per aver urlato a Francesco Schettino, nell' ormai lontano gennaio 2012, «torni a bordo, cazzo!». Leggi anche: Il retroscena sui ribelli grillini contro Salvini: come vogliono affossare il governo A bordo della Costa Concordia, la nave del naufragio al largo del Giglio. Ebbene, costui nel frattempo è assurto al rango di senatore per i Cinque stelle ma evidentemente non si sente appagato. Forse gli manca quella ribalta mediatica che fu il brodino di coltura per l' avvincente coda di carriera fantasticata. Fatto sta che da qualche tempo nessuno se lo ricordava più, sicché lui ha preso a guidare una specie di ammutinamento nei gruppi parlamentari grillini. Obiettivo: denunciare con stentorea indignazione la politica securitaria del ministro dell' Interno, il leghista Matteo Salvini. In condominio con altri colleghi, De Falco ha preso di mira prima il ddl sulla legittima difesa (nel frattempo passato a Palazzo Madama senza colpo ferire), poi il più controverso pacchetto sicurezza promosso da Salvini, approvato come decreto in Consiglio dei ministri e adesso alla prova del Parlamento. In una recente intervista al Corriere della Sera, una cosa a metà tra l' autodafè e il "reggetemi sennò je meno", De Falco ha in sostanza intimato a Di Maio e Salvini di accogliere i suoi emendamenti, piegarsi alla sua visione umanitaria e dissidente rispetto alla narrazione populista. Insomma ubbidirgli: «O fanno come dico io, o trarrò le mie conclusioni». I "VALORI" Il tipo non lascia spazio agli equivoci, è uno che ama farsi adulare - «se le viene più facile, mi chiami pure comandante» suggerisce agli intervistatori - e ci tiene molto a far sapere che al di sotto della grisaglia parlamentare sopravvive come un tatuaggio la divisa dell' ufficiale di Marina «che ha giurato sulla Costituzione» e sente d' incarnare valori non negoziabili. «Al di sotto di un certo livello, per etica, morale e senso dell' onore, io non scendo». Che cosa gli suggerisca tanto onore è presto detto: «No alla stretta sui permessi umanitari, no all' aumento dei tempi di permanenza nei centri per i rimpatri, no all' ampliamento del ventaglio di reati che porta alla revoca dello status di rifugiato». E via così in un crescendo solipsistico e declamatorio: «Un ufficiale ha una sola parola, signore». E pazienza se è quella sbagliata, e chissnefrega se la disciplina di partito nel MoVimento Cinque stelle non ha nulla da invidiare a quella delle Forze armate. Lui è fatto in questo modo granitico, come una Boldrini col pizzetto canuto e il cappello da lupo di mare. La verità è che De Falco è rimasto idealmente seduto in quella Capitaneria di porto livornese (si è soltanto messo in aspettativa), non è mai uscito dalla parte regalatagli in sorte da Nettuno: l' arcitaliano con le stellette che si trasforma nell' integerrimo fustigatore del cattivo di turno, nel caso specifico il pavido comandante Schettino finito su uno scoglio con la sua nave da crociera. Da quel giorno, in De Falco, la metamorfosi mediatica ha preso il sopravvento sul temperamento, l' ego l' ha avuta vinta sull' impersonalità caratteristica del militare, la funzione pubblica s' è divorata il senso del limite. Fino alla macchiettizzazione. AUTOESALTAZIONE In quel gennaio di quasi 7 anni fa, pochi avrebbero scommesso su un decorso così banale come l' adesione ai Cinque stelle e l' approdo in Parlamento. Tranne Massimo Fini, uomo d' esperienza e metronomo della decadenza umana, il vaticinò sul Fatto: «De Falco, standosene seduto in capitaneria (giustamente il comandante Amato, che ebbe Schettino come ottimo primo ufficiale, ha ricordato un vecchio detto: "I marittimi si dividono in due categorie: quelli che vanno per mare e rischiano e quelli che stanno a terra e giudicano"), maramaldeggia sadicamente su un uomo finito. De Falco, si scrive, non vuole passare da eroe. Non si fa vedere in televisione, non parla. In compenso fa parlare la moglie che dichiara all' inviato del Corriere della Sera: "Sa qual è la cosa più preoccupante? Che in Italia chi fa semplicemente il proprio dovere, come ha fatto mio marito, diventa un eroe". Ma questa è l' apoteosi dell' autoesaltazione, espressa in termini retorici, dell' eroismo. Perché non esiste solo una retorica della grandezza, esiste anche una retorica della modestia o piuttosto della falsa modestia». E siccome non c' è falsa modestia che non si ribalti nel proprio contrario, alla fine la vischiosa natura della vanità è emersa fino al parossismo. Se non alla violenza perfino. Perché quella stessa consorte che all' epoca cercò di personificare in suo marito l' eroismo della modestia, la signora De Falco, nel febbraio scorso ha incrinato l' oleografia presentandosi alla polizia di Livorno per raccontare che lei e la figlia sarebbero state aggredite dal marito: «Ha alzato le mani mentre era in uno stato di alterazione». AVVICENDAMENTO Lui? L' integerrimo che ha giurato sulla Costituzione, l' ufficiale che ha una sola parola, quello che «se le viene più facile, mi chiami pure comandante»? Gregorio sputò fiele e minacciò querele, giurò che non era vero - «Non sono mai stato violento. È evidente che si tratta di una strumentalizzazione mediatica volta alla denigrazione» - ammise che si stava separando dalla sua ex laudatrice. L' autodifesa assunse il tono dell' arringa marziale avvolta nell' eloquio dell' avvocaticchio: «Le difficoltà di trovare un accordo economico tra le parti e la tensione che ne deriva è il motivo scatenante dell' episodio di un recente alterco. Che comunque affermo e ribadirò sempre con onestà, non mi ha visto attore di violenze, ingiustamente attribuite alla mia persona, nei confronti dei miei familiari». Di Maio si vide costretto a prendere le sue difese nel tribunale televisivo di Barbara D' Urso, la cosa finì lì. Eppure lasciò come un retrogusto agro, una scia diffidente intorno all' eroe mascariato De Falco aveva già provato la stessa sensazione dopo l' episodio della Concordia, quando il Comando generale della Guardia Costiera aveva deciso di destituirlo dall' incarico per trasbordarlo alla Direzione Marittima di Livorno. Forse per proteggerlo dall' eccessivo clamore, forse per punirlo chissà perché. Lui ne riferì in Senato, davanti ai suoi futuri colleghi: «Questo non è un avvicendamento, è una sostituzione con destituzione». Lamentò vessazioni, De Falco, stigma-tizzò le pressioni mediatiche e alluse a certe «disapprovazioni da parte di un mio superiore». Una pagina di lancinante dolore, per un ufficiale come lui. Tanto da domandarsi se non sia stato quello il movente sotterraneo della sua svolta politica. Ma anche in Parlamento le cose stanno andando maluccio, anche qui il comandante De Falco vuole appunto comandare piuttosto che obbedire ai superiori che gli infliggono ordini contrari alla sua coscienza e alla sua «unica parola». Come disincagliarsi dalla secca? È sempre lui a suggerirci la via d' uscita: «Trarrò le mie conclusioni», ha ripetuto a cielo aperto e in questa frase è racchiuso il motto d' onore del capitano che non vuole consegnarsi ai pirati leghisti, come un grillino tutto chiacchiere e distintivo. La soluzione c' è, per fortuna: «De Falco, torni a bordo, cazzo! L' aspettativa è finita». di Alessandro Giuli

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