Luigi Di Maio, Pietro Senaldi: la congiura con cui faranno fuori il capo politico M5s
Il segnale che non sta tanto bene Di Maio l' ha dato ieri, quando, cosa del tutto inconsueta, per poche decine di minuti ha fatto il suo lavoro, ovverosia il ministro degli Esteri, rispondendo al question time alla Camera. Già di per sé, l' evento è sospetto. Ancora più indicativo è stato quanto Luigino ha detto, tendendo la mano a un avversario politico e contraddicendo la propria linea para-salviniana in materia di immigrazione. Trattasi di due importanti indicatori di debolezza. Leggi anche: Immigrazione, la fronda "porti-aperti" che fa traballare il governo Da una parte ha difeso il premier Conte, il suo rivale più pericoloso per la leadership di M5S, che fino a cinque minuti prima aveva attaccato sul contante, le alleanze e le tasse. Il ministro ha dichiarato che non c' è nessun conflitto di interessi se il governo ha approvato una legge in qualche modo favorevole alle esigenze di un cliente dell' avvocato pugliese, visto che il premier si è fatto sostituire nel consiglio dei ministri che trattava la pratica. Dall' altra parte, per tacitare le richieste della sua maggioranza, Di Maio ha promesso che cambierà l' accordo con la Libia firmato da Minniti, che ci permette di non essere invasi come ai tempi di Letta. Così dicendo il ministro è andato contro ciò che pensa, ma il sacrificio non è bastato a placare la sinistra, che ha fatto un appello affinché siano sgomberati subito i campi libici e vengano trasferiti qui i loro ospiti. MOSSA AZZARDATA Il leader di M5S ha provato a puntellare se stesso e il governo, dopo averla sparata grossa qualche ora prima, dichiarando che non ci saranno più accordi a livello territoriale tra Cinquestelle e Pd, perché l' esperimento umbro è fallito e, ovunque vada, trova militanti che gli chiedono di non ripeterlo. La frase è razionale ma può avere effetti devastanti in quanto contraddice il verbo del guru, Grillo, che si è speso pubblicamente a favore dell' alleanza, e pone le basi per una sconfitta della sinistra in Emilia, dove, se il candidato dem non sarà appoggiato dal Movimento, il centrodestra ha concrete possibilità di vincere. Va da sé che una disfatta dei progressisti nel loro feudo storico sarebbe una bomba a orologeria piazzata sotto il governo giallorosso. Luigino rischia grosso chiudendo ai Dem, e siccome non è un cuor di leone è evidente che lo fa come mossa della disperazione. Sfida il guru perché ha capito che avanti così non va da nessuna parte, che al prossimo giro sarà accantonato con la scusa dei pessimi risultati del partito e quindi alza la posta in quanto non ha nulla da perdere, butta la palla in mezzo e vede come va. Secondo lo stravagante statuto di M5S il capo è inamovibile e la sua leadership è blindata, ma basta che Grillo faccia pollice verso e lui finisce fuori. Probabilmente il comico si limiterà a smentirlo, tuttavia per pigrizia e non per stima o fiducia. L'unica forza dell' ex fenomeno di Pomigliano d' Arco è che, giacché nel regno dei ciechi l' orbo è re, non si vede chi possa prenderne il posto. Di Battista è un anti-dem, quindi non va di moda, e per di più ora non c' è più Casaleggio senior a suggerirgli cosa dire, Fico si fa i fatti suoi e si gode la poltrona d' oro, Fioramonti si è bruciato, gli altri non esistono. Resta che Di Maio è in disgrazia, e se Beppe lo scomunicasse nessuno nel partito muoverebbe un dito per salvarlo. I gruppi parlamentari non gli rispondono, gli ex capigruppo D' Uva e Patuanelli sono due suoi nemici quasi dichiarati, gli ex ministri Grillo, Lezzi e Toninelli lo detestano, inconsapevoli di essere stati accantonati per manifesta incapacità, e lo accusano di averli traditi per salvarsi la poltrona e fomentano il malcontento. Tra i parlamentari serpeggia il panico. Il partito si è ridotto di un terzo in un anno e Luigino è allo stesso tempo il capo e il capro espiatorio. Quelli che ancora si fidano di lui si possono contare sulle dita di una mano. Nessuno gli ha perdonato i 14 mesi di sudditanza nei confronti di Salvini, che hanno svilito il Movimento e gli hanno tolto l' anima. La sua arrendevolezza è stata letta dai parlamentari come desiderio di restare attaccato alla poltrona. Se tutti, dentro M5S, sono consapevoli di essere diventati il tonno della scatoletta che Grillo voleva aprire, per chiunque Luigino è il nostromo. TRUPPE RIBELLI Le truppe grilline non vogliono votare, perché significherebbe andare a casa, e temono che Di Maio, nella disperazione, possa fare qualche mossa inconsulta che porti alla fine del governo. Per questo vorrebbero liberarsene. Hanno ragione. Il leader che ormai non comanda più sta cercando di sparigliare: provoca il Pd nella speranza di esasperare Zingaretti, un altro al quale converrebbe andare alle urne in fretta per recuperare un minimo di centralità. Luigino vive una nemesi. Ha incassato molto più dei propri meriti per il semplice fatto di essere il più presentabile tra gli impresentabili. Ora paga anche colpe non sue. Non voleva l' accordo con il Pd né al governo né sul territorio, ma gli fanno portare la responsabilità del fatto che l' intesa abbia eroso ulteriori consensi ai cinquestelle. C' è perfino chi lo accusa di attaccare il Pd per lanciare messaggi a Salvini, a caccia di grillini allo sbando allo scopo di minare l' esecutivo. I suoi nemici interni sostengono che Luigi sia pronto a guidare la pattuglia di aspiranti fuoriusciti per offrirsi a Salvini. Cosa che ha fatto il 25 agosto, prima che il Quirinale lo richiamasse all' ordine. Comunque vada, l' unica cosa certa è che per lui non si concluderà bene, e che dopo di lui, sarà la volta del governo giallorosso a finire a gambe all' aria. di Pietro Senaldi