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Pietro Senaldi svela la farsa del Pd: contrordine, non vuole più tagliare i parlamentari (e il M5s ingoia)

Pietro Senaldi
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I nodi vengono al pettine. La campagna elettorale per le elezioni regionali di settembre, e il contestuale voto sul referendum per il taglio di un terzo dei parlamentari, sta partendo ma i partiti di sinistra, anziché attaccare l'avversario, giocano a mettersi le dita negli occhi a vicenda. Costretto dall'alleanza con i grillini, il Pd, dopo aver votato per tre volte no quando al governo con M5S c'era la Lega, acconsentì alla riduzione degli scranni. Era uno dei prezzi per l'intesa. Ora però i dem non hanno voglia di pagarlo e storcono il naso. Rimproverano all'alleato di non aver lavorato per approvare una riforma elettorale in senso proporzionale, che nei patti era uno dei contrappesi del taglio dei parlamentari, e vorrebbero tanto fare marcia indietro e lasciare il Parlamento così com' è.

 

 

Alcuni parlamentari progressisti hanno scritto una lettera da recapitare al segretario Zingaretti per chiedere che nel partito in campagna elettorale siano concessi uguali spazi a chi è a favore della riduzione e a chi è contrario. La risposta del supposto leader è un enigma: «Il Pd, per ora, resta a favore della riduzione». Quando si dice una posizione decisa e risoluta. Sul fronte del no sono in tanti. Dal guru Bettini, secondo il quale affettare il Parlamento «può diventare pericoloso per la democrazia», a padri nobili del calibro di Castagnetti, Cuperlo, Parisi e Petruccioli, fino al sindaco Gori e all'ex professore renziano Nannicini nonché a intellettuali come Asor Rosa e Claudia Mancina, l'esercito degli scettici si ingrossa.

LEGGE ELETTORALE
Ma siccome siamo nel campo della sinistra, e del Pd in particolare, la situazione non può essere semplice. Non solo c'è una fronda crescente contro la riduzione dei parlamentari, ma c'è anche una divisione tra chi vorrebbe una riforma elettorale proporzionale e chi invece è contrario. E qui si apre un'altra falla nella maggioranza. Leu infatti accusa i dem di tradimento, sostenendo che l'abolizione del maggioritario era una delle clausole fondanti del patto di governo, mentre i dem fanno gli gnorri.

Volano gli stracci e così cadono i veli che coprivano le bugie del premier. Quando diede il via al governo giallorosso, Conte parlò della necessità di riforme istituzionali condivise, mentre le risse interne alla maggioranza oggi dimostrano che la sola intesa sulla quale è nato l'esecutivo era impedire le elezioni che avrebbero incoronato Salvini un anno fa e usare il potere per varare una legge elettorale che impedisca al centrodestra di governare anche in caso di vittoria.

L'impresa però non è facile, perché la nuova legge elettorale deve soddisfare troppi appetiti a sinistra. I progressisti nel Paese sono minoranza ma pretendono di sfornare una riforma che al contempo lasci Salvini e la Meloni fuori dalla stanza dei bottoni e salvaguardi tutti gli atomi della sinistra, che però sono in competizione tra loro, attraversati da odi atavici. Così i dem si dibattono tra un maggioritario che li costringerebbe ad allearsi con M5S per arrivare a un'onorevole sconfitta, o un proporzionale che darebbe loro più speranze ma li obbligherebbe a venire a patti con Renzi e mantenerlo in vita, concordando una soglia di sbarramento bassa che permetta a Italia Viva di tornare in Parlamento senza che i suoi voti vengano ripartiti e beneficino il centrodestra più del centrosinistra.

MINORE DEI MALI
È improbabile che i dem oggi si schierino ufficialmente contro il taglio dei parlamentari, che sarebbe una battaglia persa. Il Parlamento intero lo votò controvoglia piegandosi ai grillini, che avevano la riduzione nel programma elettorale. In realtà nessun partito la vuole, forse oggi neppure M5S, ma quando fu votata, tutti approvarono, e i notisti scomodarono l'immagine dei capponi che festeggiano il Natale. Ai tempi la riduzione parve al Pd il minore dei mali, perché il fatto che essa implichi che la maggioranza degli attuali parlamentari non sarebbe riconfermata, era stato vissuto come una garanzia che la legislatura non sarebbe finita anzitempo. Oggi che i capponi devono entrare nella pentola che loro stessi hanno messo sul fuoco, i mal di pancia in Parlamento abbondano. A chi invece sta fuori dalle Camere, la pancia duole dalle risate che suscita lo spettacolo della classe politica più incompetente e con la più bassa stima di se stessa che sia mai esistita.

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