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Beppe Grillo "fuori di sé, dicono scenderà a Roma": retroscena sulla trappola di Giuseppe Conte per farlo fuori

Beppe Grillo  

Alessandro Giuli
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Beppe Grillo sta tornando a Roma, è questione di pochi giorni, e non porterà con sé ramoscelli d'ulivo ma la clava nodosa del capo tradito: è furibondo con i suoi, dirigenti e parlamentari del Movimento Cinque stelle, i quali si preparano a varare  il nuovo statuto e la Carta dei valori estromettendo di fatto la figura del garante da ogni possibile ingerenza sulle scelte politiche fondamentali. Una prospettiva impensabile fino a pochi mesi fa, resa ormai possibile dai recenti e vertiginosi testacoda pentastellati: dopo aver ingoiato l'opzione governista purchessia, finendo in maggioranza con tutti tranne Giorgia Meloni; con Giuseppe Conte alla guida della ditta in nome di un'improbabile "rivoluzione gentile" da mettere al servizio del Pd; con Luigi Di Maio che intanto dalla Farnesina sta costruendo le basi di un ritorno al vertice in modalità neocentrista; con Davide Casaleggio (auto) rimosso dalla scena assieme alla piattaforma Rousseau; il minimo che potesse accadere è che i fissati della democrazia diretta tentassero di liberarsi del loro creatore. E così Grillo adesso prepara la controffensiva contro quelli che considera burattini in rivolta contro Mangiafuoco. Tornerà dunque nella Capitale e andrà a caparsi i suoi (pochi) parlamentari di riferi mento, ai quali ha già consegnato il proprio sconcerto per essere stato tenuto all'oscuro delle novità previste nello statuto. Il primo a finire sul banco dell'accusa è naturalmente Conte, con il quale il comico genovese aveva avviato una trattativa serrata su ogni capitolo del documento (fonti credibili assicurano che il testo sia finito almeno dieci giorni fa sulla scrivania di Grillo e su quelle dei suoi legali). Nella sostanza al garante non va giù l'idea di restare soltanto garante, per l'appunto, di una nuova forma -partito strutturata in una forma più classica, con un'organizzazione articolata, ruoli canonizzati e procedure collegiali che all'atto pratico renderebbero impossibili le improvvisazioni decisionali alle quali Grillo ha abituato i grillini. Tanto per fare un paio di esempi: il ribaltone dell'estate 2019 consacrato con un post su Facebook e poi messo in scena in un video con la faccia pittata da Jocker per tessere l'elogio del caos; il simile copione, sia pure meno sfacciato, scritto e interpretato per dare il via libera all'operazione Draghi mentre tanta parte dei mandarini pentastellati si erano già esposti in fragorose bocciature delle larghe intese in arrivo. Cose che succedono quando l'antipolitica s' impadronisce del Palazzo e lo trasforma in un circo mediatico, cose che non possono più capitare se il popolo degli anti casta sceglie d'indossare la grisaglia e concedersi alla svolta istituzionale richiesta dalla verticale del potere che collega il Quirinale con Palazzo Chigi.

 

 

SQUILIBRIO EMOTIVO
C'è poi da tenere presente un altro aspetto della vicenda. Negli ultimi mesi Grillo ha dato evidenti, imbarazzanti segnali di squilibrio emotivo e di protervia politica. Si tratta, nell'ordine, del video diffuso ad aprile in cui il garante difendeva in modo confuso e addolorato suo figlio Ciro, sul quale pende una richiesta di rinvio a giudizio per violenza sessuale di gruppo e, fatto ancora più rilevante, dell'incontro d'una settimana fa all'ambasciata cinese a Roma con l'ambasciatore Li Junhua, avvenuto in concomitanza con il summit britannico in cui Draghi ha brindato al rinnovato impegno atlantista con i campioni del G7. Era invitato pure Conte, il quale però ha accampato scuse personali per sfilarsi all'ultimo minuto. Di certo non sono sfuggite agli analisti internazionali le analogie e le differenze con un altro colloquio avvenuto sempre all'ambasciata di Pechino nel novembre del 2019. In quella circostanza, il collateralismo dei grillini venne celebrato a cielo aperto e contraccambiato dai complimenti ufficiali dei cinesi nei confronti di Di Maio, fresco reduce dal China International Import Expo.

 

 

Ma nel frattempo il titolare della Farnesina si è completamente allineato al "serrate i ranghi" occidentalista reclamato da Washington, abbandonando Grillo al suo isolamento e guadagnandosi il sospetto di essere lui il principale regista del ridimensionamento previsto nei confronti del garante. Tutto ciò significa che Grillo è destinato a breve a uscire di scena? Improbabile, anche perché non sarebbe un processo istantaneo né incruento. Oltretutto, osservano i suoi fedeli, «senza il suo via libera il voto sul nuovo statuto non può partire». Ma ce n'è anche per Conte, i cui silenzi e le cui ambiguità cominciano a disorientare l'intendenza pentastellata. «Conte è irraggiungibile; Beppe viene chiamato da decine e decine di portavoce». Sicché Beppe sarà a Roma, settimana prossima, ancora in qualità di garante plenipotenziario e di figura decisiva per mettere ordine. Se non fosse che le ultime sue parole, generalmente, rappresentano l'apologia del disordine e del principio di contraddizione. L'imperativo categorico, a questo punto, è musealizzare Grillo con il suo beneplacito, senza strappi che possano provocare ulteriori frammentazioni parlamentari. E il primo ad aver bisogno di stabilità è proprio Draghi, «la soluzione migliore per questo paese» secondo l'ultima conversione di Grillo.

 

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