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Joe Biden in pressing al G20, retroscena: gli Usa vogliono la conferma di Mario Draghi e Mattarella

Fausto Carioti
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Per la prima volta a Roma nelle vesti di presidente, il cattolico Joe Biden ieri si è recato in visita da papa Francesco. Un faccia a faccia utile per risollevare le sue quotazioni, a pochi giorni dalla riunione in cui i vescovi statunitensi dovrebbero decidere se togliere l'eucaristia ai politici (come lui) favorevoli ) all'aborto. Ottenuta la benedizione papale ha quindi incontrato, separatamente, Sergio Mattarella e Mario Draghi. Retorica di circostanza a parte, l'interesse che Biden ha proclamato per l'Italia e il vecchio continente è sincero. Se non altro perché, senza la collaborazione della Ue e degli Stati europei, gli sarebbe impossibile contrastare la Cina, impegnata ad estendere la propria influenza sino al Mediterraneo.

 

 

 

Anche per questo, i suoi auspici nei confronti dell'Italia vanno oltre ciò che è stato reso noto al termine dei colloqui. Non è un mistero, negli ambienti diplomatici che curano le relazioni tra i due Paesi, che l'assetto attuale, con Mattarella alla presidenza della repubblica e Draghi alla guida del governo, sia ritenuto ideale alla Casa Bianca. Se potesse, Biden lo congelerebbe per i prossimi anni; non potendo farlo, fa capire ai suoi interlocutori italiani quanto sia importante non interrompere quella che ritiene una fase utile per tutti. È uno dei motivi per cui non si può escludere che un restio Mattarella rimanga davvero sul Colle per un secondo mandato, sebbene dalla durata limitata, nel caso in cui la maggioranza dei grandi elettori, a febbraio, non trovi l'accordo su un altro nome. In un Paese dove i governi spesso durano pochi mesi e basta un pugno di parlamentari per ribaltare gli equilibri, il Quirinale è da sempre il punto di riferimento stabile di ogni presidente americano, e deve rimanerlo. Il discorso è ancora più delicato per Draghi.

 

 

Il complimento che Biden gli ha fatto a palazzo Chigi dice già tutto: «You are doing a hell of a job here», stai facendo un lavoro straordinario qui. Chiaro il messaggio, che peraltro era già stato recapitato al ministro leghista Giancarlo Giorgetti durante la sua recente trasferta negli Stati Uniti: Draghi sta bene lì dov' è. Persino il suo trasloco al Quirinale, si apprende, sarebbe ritenuto una mossa poco produttiva, uno spreco di leadership che nuocerebbe pure a Washington. Alla domanda fatidica «quale numero dobbiamo chiamare se vogliamo parlare con l'Europa?», la risposta, negli ultimi quindici anni, l'ha data il cellulare di Angela Merkel. Che però sta uscendo di scena. E il suo probabile successore, il socialdemocratico Olaf Scholz, è fuori gioco, almeno sin quando non avrà imparato a governare i tedeschi. C'è Emmanuel Macron, certo.

La Francia è importante e lo sarà ancora di più nel prossimo semestre, durante il quale guiderà il Consiglio dell'Unione europea. Ma Parigi fa sempre gioco a sé, nella partita militare e di sicurezza atlantica, e sino alla fine di aprile in cima ai pensieri di Macron ci saranno le elezioni presidenziali, che ovviamente rappresentano un'incognita. Una tacca sotto Parigi c'è Roma. E quello di Draghi sarebbe il numero perfetto da chiamare. «Ci sono gli accordi commerciali e industriali tra Usa e Ue, bloccati da Donald Trump, che Biden vuole rilanciare, in funzione anti-cinese. Ci sono le nuove regole per governare il mondo digitale che debbono essere introdotte», spiega chi lavora a questi dossier. E sono partite nelle quali Draghi può far sentire il proprio peso stando a palazzo Chigi, non certo al Quirinale.

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