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Enrico Letta disperato: al Quirinale vuole il tassatore più odiato d'Italia. Proprio lui...

Fausto Carioti
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Enrico Letta è convinto di avere in tasca il candidato giusto per il Quirinale. Solo che non può tirarlo fuori. Dove "giusto" significa non solo dotato di un adeguato curriculum, ma anche capace di aprire una breccia nel centrodestra, senza la quale non c'è speranza di riuscita. Si tratta di Giuliano Amato. Che entrò in parlamento nel 1983 col Psi di Bettino Craxi, oggi è giudice costituzionale e tra poche settimane, salvo sorprese, sarà presidente della Consulta. Nel frattempo ha ricoperto ogni possibile incarico istituzionale. È a lui (non solo a lui, ma innanzitutto a lui) che pensa Letta quando, come ieri, dice che «dobbiamo continuare con i presidenti istituzionali». E a titolo d'esempio cita proprio Sergio Mattarella, ricordando che «è stato giudice costituzionale». A lasciar intendere che quella è la scuola giusta, dalla quale pure chi ha fatto carriera nei partiti esce mondato di ogni partigianeria, pronto per traslocare sul lato opposto di piazza del Quirinale e diventare il garante di tutti, o presunto tale.

Questo, almeno, è il sogno di Letta (e di Amato, va da sé), dopo che si è capito che Mattarella non vuole saperne del bis e che la candidatura di Mario Draghi si è rivelata pericolosissima da maneggiare. La strada dell'elezione a larga maggioranza appare impervia pure per l'autore del prelievo notturno sui conti degli italiani, a maggior ragione dopo che ha rilanciato l'idea di aumentare il numero di migranti economici accolti in Italia, ma gli altri nomi della scuderia progressista (Paolo Gentiloni, Anna Finocchiaro...) non sembrano in grado di raccogliere un maggior numero di consensi. A parte l'appetibilità politica di Amato, i problemi sono due. Il primo è l'età: l'uomo va per gli 84. Però Giorgio Napolitano aveva 89 anni quando lasciò l'incarico e nulla gli avrebbe impedito di mantenerlo per un altro lustro. Il secondo problema ha due anni più di Amato, uno stile che non potrebbe essere più diverso e una capacità di adattamento che rivaleggia con la sua: si chiama Silvio Berlusconi. Il vero ostacolo è lui.

 

 

Amato ha provato a rimuoverlo parlandone con lo zio di Enrico, Gianni. Il quale, a sua volta, avrebbe dovuto convincere il Cavaliere. La prima parte è riuscita: l'eminenza azzurrina e il dottor Sottile sono fatti di una pasta simile e il primo, ecumenico com' è, vedrebbe con piacere Amato sul Colle. La seconda, no: Silvio non ne vuole sentir parlare. Non ora, almeno. E, a quanto raccontano, non lo ha smosso nemmeno la prospettiva di essere nominato senatore a vita assieme a Romano Prodi (nessuno sarebbe più adatto di Amato, per un'operazione simile). Così, il capo del Pd è incartato. Per sbloccare la situazione ha bisogno di Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Ieri ha ribadito che «un presidente della repubblica eletto a 505 voti», la soglia che Berlusconi punta a raggiungere nella quarta votazione, «sarebbe un vulnus molto grave che il Paese non si può permettere».

 

 

Ha sostenuto che l'identikit giusto non può essere quello del leader di Forza Italia, perché sul Colle occorre «una figura super partes e non un capo politico. Il presidente della repubblica non lo è mai stato». Ha evocato lo spettro dell'isolamento internazionale cui sarebbe sottoposta l'Italia se Berlusconi riuscisse nell'impresa: «Sul centrodestra che lavora all'ipotesi di una maggioranza stretta sul nome di Berlusconi sta emergendo la sorpresa negli sguardi degli osservatori stranieri». E quindi, rivolgendosi chiaramente ai capi di Lega e Fdi, ha detto che esiste «un'unica via maestra», che è quella di eleggere una figura «istituzionale, consensuale, in grado di rappresentare tutto il parlamento». Un appello esplicito a mollare il Cavaliere. Al Nazareno l'immagine del segretario appeso alle decisioni di Salvini e Meloni, senza nessuna buona carta da giocare, mette una certa inquietudine. «Berlusconi», commenta preoccupato un dirigente del Pd, «è tornato ad essere un incubo. Se la spuntasse, prendendoci di sorpresa, non ci sarebbe da stupirsi...». 

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