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Quirinale, Marcello Pera: "Anche io tra i candidati? Se smentisco, confermo"

Fausto Carioti
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A maggio, intervistato da Libero, Marcello Pera, filosofo ed ex presidente del Senato, aveva auspicato la nascita, sotto la guida di Matteo Salvini o Giorgia Meloni, di una sorta di «partito conservatore liberale», capace di occupare l'area che era stata di Forza Italia. A un mese dall'inizio delle votazioni per l'elezione del presidente della repubblica, e con una legislatura che fatto ciò non avrà più molto da dire, il bilancio di Pera è in chiaroscuro. «Poiché Meloni è a capo del gruppo dei conservatori nel parlamento europeo e Salvini un anno fa aveva rilanciato la "rivoluzione liberale", le condizioni ci sarebbero. Mi sembra, però, che si proceda lentamente».

L'unica partita che adesso conta è quella per il Quirinale. Il centrodestra, per la prima volta, si trova nella condizione di non dover subire le scelte della sinistra. Come sta usando questa opportunità?

«Hanno cominciato bene, chiedendo un tavolo con tutti e rivendicando il peso determinante che il centro-destra ha. Nessuno può imporre o farsi imporre qualcuno da nessuno. La situazione è eccellente per cercare il candidato più rappresentativo».

Resta solo da capire chi. Anche se la candidatura di Silvio Berlusconi non è ufficiale, è chiaro che lui fa sul serio.

«Diamo merito a Berlusconi di aver violato una regola un po' farisea: che alla presidenza della repubblica non ci si candida. Lui invece di fatto si è candidato, e la cosa mi sembra che corrisponda a esigenze di trasparenza. Non è un bello spettacolo quello di un collegio che si riunisce per eleggere il più alto magistrato d'Italia senza che nessuno si sia fatto ufficialmente avanti. I cittadini vivono questa elezione come una lotteria o un gioco da cui sono esclusi».

La vecchia regola per cui al Quirinale non ci si candida, semmai si viene candidati.

«Purtroppo è così. Mi sembra evidente che la nostra costituzione sia carente anche su questo punto. Da qualche parte i nostri Padri potevano pur scrivere che il presidente della repubblica è eletto da un collegio di parlamentari e rappresentanti regionali "secondo le procedure previste dalla legge"».

Lei è stato seconda carica dello Stato. Ha lasciato un ottimo ricordo e il suo nome è tra quelli dei possibili candidati. Cosa pensa quando lo legge sui giornali?

«Quello che ho appena detto. Che non mi piace il sistema di elezione. Come si fa oggi a dire che uno è un "possibile candidato"? Non ci sono candidati e i possibili sono tutti quei milioni di italiani che hanno compiuto cinquanta anni. Un po' troppi, mi sembra. Oltretutto, pensi al malcapitato che si trova l'etichetta di candidato sul collo. Se smentisce, conferma. Se conferma, esce dal novero dei candidati».

A detta di molti, il candidato «naturale» sarebbe Mario Draghi. Lo è anche secondo lei? O crede che, per il Paese, i rischi del trasloco sarebbero superiori ai vantaggi?

«Onestamente, non saprei dire. Ecco un pro: Draghi è una figura altamente rappresentativa. Ecco un contro: se diventa presidente della repubblica, lascia un lavoro importante incompiuto senza sostituti di pari livello. Un altro pro: Draghi è apprezzato da tutti. Un altro contro: Draghi è temuto da tutti».

Un candidato eletto con 505 voti, magari in seguito a un'intesa del centrodestra con Matteo Renzi e i suoi, sarebbe davvero un «vulnus molto grave», come ha sostenuto Enrico Letta?

«Se è un vulnus, c'è già stato nella nostra storia e fa precedente. Letta ricorderà che Saragat era il capo del Psdi. Fu tutto costituzionalmente legittimo e lo sarebbe ancora, anche se, politicamente, è vero che una maggioranza più ampia di quella strettamente necessaria sarebbe auspicabile. Dopotutto, si tratta di scegliere chi rappresenta l'unità nazionale».

C'è un però, mi pare di capire.

«Però la regola della maggioranza ampia chiesta da Letta dovrebbe valere sempre, anche quando le parti fossero invertite. Altrimenti sembra un veto, che non è accettabile».

 

 

Lei è tra coloro che vogliono che il prossimo presidente della repubblica sia l'ultimo non eletto dal popolo. La sua vecchia idea, eleggere col sistema proporzionale un'assemblea costituente, coincide con quella di Fratelli d'Italia e sembra convincere buona parte del centrodestra. Crede che la prossima legislatura sarà quella buona?

«Precisiamo. Quando auspico l'elezione diretta del presidente della repubblica, parlo del sistema presidenziale o americano o francese. Questo sistema non si esaurisce con l'elezione diretta. Se il presidente è capo dell'esecutivo, tante cose devono cambiare. Non a caso, nel disegno di legge Meloni, al presidente della repubblica è giustamente tolta la presidenza del Csm. E non basta. Dobbiamo rivedere il bicameralismo perfetto, i poteri del primo ministro in Parlamento, il regionalismo o federalismo che sia, l'ordinamento giudiziario...».

Una revisione pressoché integrale della seconda parte della costituzione, insomma.

«È così. E siccome per questo lavoro occorrono coerenza, sistematicità e unitarietà di disegno e sistema, ho proposto un'assemblea costituente dedicata a questo solo scopo».

Non basterebbe una commissione bicamerale o una normale revisione della costituzione in parlamento, come previsto dall'articolo 138?

«Di bicamerali ne abbiamo già avute tre e hanno tutte fallito. Per una duplice ragione di fondo. Prima: fatta in parlamento, la riforma, prima o poi, urta contro la maggioranza parlamentare e il suo interesse politico del momento, sì che si blocca. Seconda: una riforma in una bicamerale parlamentare finisce con l'urtare anche contro il governo in carica, e di nuovo si paralizza. È già accaduto con l'ultima bicamerale. La mia proposta è diversa. Settantacinque membri eletti in un'assemblea costituente, non parlamentari, con un tempo di dodici mesi e infine un referendum confermativo del testo».

I vantaggi quali sarebbero?

«Garanzia di successo: alla fine avremo una seconda costituzione e una vera seconda repubblica. Massimo coinvolgimento democratico: il popolo vota due volte, quando elegge i 75 e quando ne giudica il testo. Libertà dell'assemblea da condizionamenti di parlamento e governo: i 75 decidono per il futuro secondo le loro idee soltanto. Posso fare un auspicio, sotto forma di domanda?».

 

 

Prego.

«C'è in Italia una classe di giovani che abbia la volontà di decidere del proprio futuro, l'orgoglio di disegnarlo secondo le esigenze che avverte, l'ambizione di prendersi responsabilità, come fecero i loro nonni? Oggi si vota sempre meno, c'è disaffezione e crisi dei partiti. Ma domani, dopo un nuovo atto battesimale, io credo che si rigenererebbe la politica. Una rivoluzione pacifica».

Nell'attesa, abbiamo questo parlamento. Con l'eclisse del Movimento Cinque Stelle e il suo definitivo allineamento al Pd, siamo tornati al vecchio bipolarismo?

«Quella che lei chiama "eclisse dei Cinque Stelle" a me pare una transizione faticosa, ma esaltante, da una fase ad un'altra. Devono ridefinirsi. Quanto all'allineamento al Pd, mi sbaglierò, ma non mi pare che Di Maio la pensi in questo modo. È un giovane leader che non ha opinioni precostituite e conformiste, con esperienze importanti di governo. Non credo ami autodefinirsi subalterno».

Matteo Renzi e Carlo Calenda sembrano ormai fuori da ogni possibile accordo col Pd. Che dovrebbero fare?

«Bella domanda. Intanto, non ho capito perché Renzi e Calenda continuino a beccarsi. Suscettibili come sono, non posso neppure dire che sono come i polli di... Renzi: s' immagina Calenda?». 

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