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Mario Draghi, "scissione pilotata": cosa sta succedendo in queste ore

Fausto Carioti
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Per la prima volta dall'inizio della quasi-crisi di governo c'è un progetto che potrebbe garantire la permanenza di Mario Draghi alla guida dell'esecutivo e il proseguimento della legislatura sino al termine naturale. Sono cambiati anche i toni, sia a palazzo Chigi che al Quirinale: da assolutamente pessimisti che erano, si sono fatti cautamente possibilisti.
Certo, c'è la consapevolezza che incastrare tutti i pezzi sarà molto complesso, basta che uno dei protagonisti dica «no» per far saltare il tavolo. E ormai è chiaro a tutti che, se l'operazione non funziona, in settimana saranno sciolte le Camere per andare a votare il 2 ottobre o in una domenica adiacente.
Tutto passa per l'ennesima scissione dei Cinque Stelle.
Trenta o trentacinque di loro, in gran parte deputati, tra cui il ministro Federico D'Incà, sono pronti a lasciare il movimento guidato da Giuseppe Conte per mettersi in proprio, oppure (ci sono trattative) per entrare nella sigla creata poche settimane fa da Luigi Di Maio, "Insieme per il futuro", che così diventerebbe uno dei gruppi più forti del parlamento.
Sono i "governisti", un manipolo minoritario, ma consistente. Determinato a votare la fiducia a Draghi mercoledì (sempre che ci sia una fiducia da votare, cosa niente affatto scontata), qualunque cosa decida Conte. Gli altri eletti grillini li accusano di tradimento, urlando frasi come «se lo specchio non può sputarvi, potrebbe iniziare a farlo qualcuno di noi». Chiaro che per loro lì non c'è più posto.
All'avvocato pugliese, questa separazione può anche risultare conveniente. La convivenza tra le due anime è impossibile e meno sono quelli che gli chiederanno un posto nelle liste elettorali, più facile sarà il suo lavoro. Meglio lasciare andare i non allineati e restare con uno zoccolo duro di pasdaran. Assieme ai quali, almeno all'inizio, intende collocarsi non all'opposizione, ma all'appoggio esterno al governo.

 

 

 





IL RUOLO DI LETTA - Nel Pd raccontano che è stato Conte ad illustrare il disegno a Letta, dicendosi anche disponibile a subire la scissione e facendo presente che l'uscita del M5S dal governo potrebbe essere motivo di soddisfazione pure per Draghi, che così avrebbe problemi in meno da risolvere. Gli scissionisti, inoltre, garantirebbero la sopravvivenza della legislatura, alla quale tengono sia Conte che Letta. Al segretario del Pd, il capo dei Cinque Stelle ha chiesto però il mantenimento dell'alleanza elettorale. La risposta immediata di Letta a questo pacchetto è stata negativa, «ma pure Enrico sa», ammettono al Nazareno, «che se Draghi dice sì, non potremo essere noi a tirarci indietro». Un alto dirigente del Pd conferma che la strada che passa per la diaspora dei grillini «non è facile, ma è l'unica. Conte, però, lo considero perso». Questa sorte di "scissione concertata" non basta comunque a risolvere i problemi del governo. Innanzitutto occorre vedere cosa decideranno Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. I due, ieri, hanno dato un'altra spinta verso il voto. In mattinata Mariastella Gelmini, ministro forzista, draghiana e vicina a Gianni Letta, aveva avvertito i partiti della maggioranza: «Non dovrebbero porre condizioni, ma assicurare un sostegno leale». Il Cavaliere e il Capi tano hanno fissato invece una condizione ultimativa per continuare con Draghi: «È esclusa la possibilità di governare ulteriormente con i Cinque Stelle». Richiesta che non facilita i rapporti col premier. Ora sarebbero disposti ad entrare in un governo senza i Cinque Stelle "doc", ma con dentro molti dei loro transfughi?
L'ipotesi è ancora da costruire e una risposta ufficiale non c'è.
Dalle parti di Berlusconi prendono tempo: «Vediamo. Certo, meglio questa soluzione di altre...». Un ministro si dice convinto che alla fine i due ci staranno. «Se Draghi dice sì, Salvini e Berlusconi non possono rimanere col cerino in mano. Il nord leghista non vuole le elezioni anticipate, e nemmeno le vuole Mediaset».
Così è nella testa di Draghi, oggi in visita di Stato in Algeria, che occorre indagare per capire cosa succederà da qui a dopodomani. Il premier ha annotato con piacere gli attestati di stima che gli sono arrivati damille sindaci, da diversi governatori e da tanti italiani, le telefonate dei leader internazionali che gli chiedono di restare.
Non bastano, però. Così come non basterebbe la scissione dei governisti pentastellati, utile comunque a non far pendere la bilancia del governo dalla parte del centrodestra e a mantenere l'impegno, assunto da Draghi, di non restare al governo senza i Cinque Stelle, anche se usciti dal gruppo originario.

 

 

 

 




SOSTEGNO CHIARO O VOTO - Affinché mercoledì si possa votare una nuova fiducia in Senato e far ripartire l'esecutivo su basi chiare, è necessario che il premier, anziché confermare l'intenzione di dimettersi, illustri il suo programma di fine legislatura. Farà così solo se domani, nella conferenza dei capigruppo, sarà emersa una maggioranza solida disposta a prendere l'impegno formale di sostenerlo senza ambiguità (gli strumenti parlamentari per farlo non mancano). Chi ieri ha parlato con Draghi si mantiene prudente e spiega che «i fatti politici di cui tenere conto sono molti e al momento non si sono visti progressi tali da far immaginare un cambiamento nelle sue intenzioni. Senza un sostegno chiaro e privo di ambiguità non c'è possibilità di andare avanti». Sul Quirinale confermano che Mattarella la pensa come Draghi: si stanno muovendo molte cose, ma l'ipotesi di sciogliere le Camere resta la più probabile. Servirà altro, in queste quarantotto ore.

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