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Mario Draghi, a fregarlo è stato il Pd. Così Letta lo ha fatto schiantare

Pietro Senaldi
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Si vota il 25 settembre. Il centrodestra ha un’alleanza rodata, per quanto non estranea ad avventure rocambolesche e raptus suicidi, e si presenterà compatto. La sinistra è stata spiazzata dalle dimissioni di Draghi, che pensava di pilotare a proprio vantaggio e invece le sono sfuggite di mano. I dem hanno perso il loro alleato di riferimento, M5S, che non potrà rientrare nel campo largo di Letta. C’è troppo poco tempo infatti perché il Pd riesca a sorvolare come se nulla fosse sulla sfiducia di Conte al premier e perché vada in prescrizione il tentativo di omicidio che i progressisti hanno perpetrato nei confronti dell’avvocato foggiano, al quale hanno affettato il partito neanche fosse un salame, un pezzo alla volta. Ecco che allora l’alternativa che si presenta a Letta, e che il segretario ha già iniziato a cavalcare, è buttarla sul marketing, il che significa rottamare la ragione sociale del proprio partito e sostituirla con un solo brand: siamo noi gli eredi di Draghi, e tanti saluti agli immigrati, ai gay, alla patrimoniale, al salario minimo e a tutto quello che i progressisti fino a ieri sostenevano di rappresentare. Se l’ex governatore della Bce ci mette il cappello sopra, bene; altrimenti, si va avanti lo stesso.

IL COLLANTE - L’anima, anzi il cuore, del banchiere diventa così il collante con cui mettere su un cartello elettorale che tiri dentro i centristi, da Calenda a Renzi, da Di Maio a Brugnaro e macro partiti vari, una sorta di Ulivo senza la sinistra vera. È quello che, sostengono i bene informati, il Pd, nella figura di Franceschini in particolare, ha tentato di fare tra martedì e mercoledì, senza passare dal voto, pratica alla quale è notoriamente allergico. La narrazione avallata dalla stampa progressista dice che Draghi è caduto perché, dopo la sfiducia di Conte, ha incassato anche quella della Lega, che avrebbe trascinato nel baratro Forza Italia. È un racconto funzionale a costruire una campagna elettorale che metta sotto il tappeto tutte le contraddizioni, le inadeguatezze e le responsabilità nello sfascio dell’Italia dello schieramento progressista per fare del centrodestra, già ribattezzato il “fronte populista”, la rappresentazione del male assoluto nonché il killer di Draghi.

 

 

Le cose però sono andate diversamente. E non solo perché il centrodestra, dopo il discorso del premier, aveva presentato con la Lega una mozione che impegnasse la maggioranza a sedersi al tavolo per concordare una linea guida di un nuovo esecutivo da affidare sempre all’ex governatore della Bce. La verità è che Letta, il giorno prima dell’intervento decisivo in Senato, si era recato in visita privata dal premier dimissionario dopo aver concordato con il suo drappello di dirigenti di strettissimo giro un piano per un Draghi bis che tagliasse fuori dalla maggioranza non solo M5S ma anche una parte della Lega. I dem puntavano a staccare Berlusconi, e magari anche la parte più governista del Carroccio, da Salvini e ad andare avanti con una coalizione che li vedesse ancora più al centro della stanza dei bottoni.

Questo è il pacchetto, che potremmo ribattezzare “Franceschini”, venduto al premier, che non a caso il giorno dopo ha fatto del discorso con il quale avrebbe dovuto compattare tutti intorno alla propria figura un atto d’aggressione alla Lega, funzionale a determinarne la fuoriuscita. La scommessa che Salvini rompesse ma Forza Italia no è stata vanificata dalla tenuta del Cavaliere, imprevista e tetragona, che ha scompaginato i piani, soprattutto dei ministri azzurri, due dei quali, Brunetta e Gelmini, hanno per questo lasciato il partito; e vedremo cosa farà nei prossimi giorni la Carfagna, mentre già si registra l’abbandono del suo fedelissimo, Cangini.

 

 

REAZIONE BILIOSA - In questo contesto si giustifica anche la reazione, biliosa e sopra le righe, che Draghi ha avuto all’offerta dei leader del centrodestra di andare avanti con loro e con nuovi patti. L’ex governatore si è trovato un copione in mano che non corrispondeva alla realtà di quanto avveniva in Aula e ha perso le staffe, tradendo una scarsa attitudine alle logiche della politica, che forse è anche la ragione principale per la quale a gennaio ha perso il Quirinale, spingendo sull’acceleratore quando invece avrebbe dovuto alzare il piede, proprio come l’altro giorno a Palazzo Madama. Il risultato è che il premier è stato messo in trappola dalla sinistra, che gli ha fatto fare pure la figuraccia di chi, anziché continuare a timonare la nave, la abbandona con un pretesto per paura che affondi. Perché è indubbio che Draghi, se avesse voluto, avrebbe potuto essere ancora a Palazzo Chigi nel pieno dei suoi poteri.

Sarebbe bastato che accogliesse la mozione del centrodestra anziché arroccarsi su una posizione di rottura con Lega e Forza Italia, mal consigliato dai suoi laudatores, che ora, per mancanza di argomenti originali fanno campagna elettorale sulle sue spoglie, oltre che, come sempre, sulla denigrazione dell’avversario, al quale tanto per cambiare attribuisce le colpe proprie. 

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