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Enrico Letta e il Pd verso il baratro: se il centrodestra stra-vince... un piano pazzesco

Fausto Carioti
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Dalla paura della sconfitta, ormai metabolizzata da gran parte dei suoi esponenti, la sinistra sta passando all'incubo della «vittoria bulgara» degli avversari. Una maggioranza del 60% dei parlamentari, ossia il raggiungimento di 360 eletti sul totale di 600, sarebbe sufficiente al centrodestra per eleggere in solitudine, dal terzo scrutinio in poi, i successori dei giudici costituzionali Silvana Sciarra, Franco Modugno, Augusto Barbera e Giulio Prosperetti, i cui mandati scadranno entro il2024. Oltre che per cambiare in autonomia la Costituzione, potendosi persino permettere il lusso di qualche defezione in aula. E il presidenzialismo alla statunitense, ossia l'elezione diretta del capo dello Stato, che per la sinistra rappresenterebbe il trionfo della "deriva plebiscitaria", è in cima ai progetti del centrodestra e in particolare di Giorgia Meloni, che la ritiene «la madre di tutte le riforme costituzionali». Una maggioranza ancora più ampia, pari ai due terzi (134 senatori e 267 deputati), consentirebbe addirittura di farlo senza che il nuovo testo possa essere sottoposto a referendum.

 

Per questo gli umori a sinistra tendono al nero: hanno capito che stavolta il pericolo è serio. La forza dell'alleanza tra Fdi, Lega e Forza Italia, valutata dai sondaggisti attorno al 46%, c'entra fino a un certo punto: al resto contribuiscono le divisioni tra il Pd e i partiti con cui Enrico Letta sognava di allearsi. Le sigle che avrebbero dovuto comporre il «campo largo», la sua Santa Alleanza anti-destra, si presenteranno agli elettori in due schieramenti concorrenti o addirittura tre, se oggi Carlo Calenda farà lo scherzo finale.

I NUOVI TRIBUNI
A sinistra del Partito democratico ci saranno Giuseppe Conte e Michele Santoro, probabilmente alleati tra loro. Due tribuni della plebe assai improbabili, viste le ricche consulenze giuridiche firmate dal primo e i contratti che il secondo ha ottenuto in passato da Rai, Mediaset e La7. Ciò non toglie che ogni voto che prenderanno sarà tolto ai democratici e alle sigle rosse loro alleate. Motivo per cui Roberto Speranza ieri ha lanciato un appello estremo a Letta e Conte, affinché dimentichino i dissidi su Mario Draghi e corrano insieme. «So che è molto dura, ma continuerò a dire fino all'ultimo che l'avversario è la destra e che dividendo il campo dell'alternativa la stiamo favorendo».

Un altro concorrente potrebbe materializzarsi a destra del Pd, lasciando il partito di Letta alleato con un gruppetto di cespugli rossi e nulla più. Dipende da Calenda, che anche ieri ha lanciato orgogliosi proclami di autonomia, sostenendo che «agli elettori di Azione non possiamo chiedere di votare Di Maio, Bonelli e Fratoianni nei collegi uninominali». In questa direzione spingono gli ex forzisti entrati in Azione, anche perché i loro vecchi elettori non perdonerebbero apparentamenti col Pd, e lo stesso vogliono gli aspiranti alleati di Italia Viva.

 

Matteo Renzi e i suoi sono pronti a fare uno schieramento centrista assieme a Calenda, ma lo aspettano senza fidarsi troppo: Emma Bonino, che di Calenda è alleata, ha già stretto un'intesa con Letta, e la convinzione di molti è che l'ex ministro dello Sviluppo stia solo alzando il prezzo per seguirla. In questo caso, si vedrà se davvero Italia Viva si presenterà sulle schede da sola, come ieri Renzi ha promesso di fare: «Se a destra ci sono Salvini e Meloni, e a sinistra quelli che dicono no al rigassificatore e sì ai navigator, certo che corro da solo al centro». Pure in tale ipotesi, quindi, a destra del Pd ci sarebbe qualcuno impegnato a prendere i voti dei progressisti moderati, con qualche credenziale in più di Speranza e dello stesso Letta.

Per capire cosa può significare questo per la composizione del prossimo parlamento, bisogna ricordare come funziona la legge elettorale. Essa assegna i cinque ottavi dei seggi col proporzionale, il che significa che al centrodestra, col suo 46%, dovrebbe andare poco meno della metà di essi. Il resto è assegnato in 221 collegi uninominali (74 al Senato e 147 alla Camera), dove viene eletto un solo candidato, quello che prende un voto più degli altri. È lì che si gioca la partita ed è lì che gli avversari di Meloni, Salvini e Berlusconi, se vogliono arginarli, dovrebbero fare fronte unito sostenendo candidati in comune, per quanto indigeribili siano, e pregare che i loro elettori li seguano, cosa niente affatto scontata.

Ad esempio, ottenere il 48% dei voti e vincere nell'83% dei collegi uninominali darebbe al centrodestra il 60% dei membri delle due Camere, con le conseguenze di cui si è scritto. Il 53% dei voti e la vittoria nel 90% di quei collegi garantirebbe addirittura i numeri necessari a riscrivere la Costituzione scongiurando il rischio del referendum. Obiettivi difficili, ma non impossibili, soprattutto il primo.

LA «RELIGIONE CIVILE»
Così ora la sinistra vede l'abisso davanti a sé. Il politologo Salvatore Vassallo, direttore dell'Istituto Cattaneo, scrive su Domani, il quotidiano di Carlo De Benedetti, che «se Azione prende la strada della corsa solitaria, tra gli applausi di sollievo di Nicola Fratoianni, non solo molti seggi contendibili vanno a destra. Nella prossima legislatura la destra, oltre a una maggioranza bulgara, avrà un'opposizione divisa in tre o quattro spezzoni». Repubblica intervista lo storico Giovanni De Luna, affinché metta in guardia tutti: «Per la prima volta nella storia repubblicana la destra potrebbe avere i numeri sufficienti per cambiare la carta costituzionale. E i suoi valori restano antitetici a quelli della religione civile degli italiani nata con la Costituente». Lo stesso quotidiano fa sapere a Calenda di avere pronta per lui l'accusa di complicità oggettiva col nemico: «Presentare un ulteriore polo aiuta solo il centrodestra». È il ragionamento che in questi giorni mesti fanno nel Pd, e che Letta ha ripetuto ieri, avvisando che «un terzo polo è il modo migliore per aiutare le destre». Non è l'unico, però. Gira anche una percentuale, «attorno al 25-26%». È la quota che, se non viene raggiunta dalla lista del partito nel proporzionale, comporterà le «inevitabili dimissioni» del segretario, colpevole di aver perso male, anche per essersi fidato di Conte, la sfida più importante. Nel caso, Stefano Bonaccini è pronto.

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