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Giorgia Meloni, Orsina: "Perché la gente non crede più a Letta e al Pd"

Fausto Carioti
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Non è un buon momento per la nostra democrazia, dice il professor Giovanni Orsina, ordinario di Storia Contemporanea e direttore della School of Government della Luiss. Gli italiani sono sempre più distanti dalla politica, è dal 2011 che questo Paese non ha un premier scelto dagli elettori, il vincolo esterno rappresentato dal debito pubblico e dagli obblighi internazionali riduce l'autonomia nazionale, la campagna elettorale gira attorno all'eterno tema del fascismo risorgente. Per alcuni di questi mali il presidenzialismo può essere la cura (e altre medicine, comunque, non se ne vedono).

 

 

 

 

Professore, la sovranità «appartiene al popolo», che però è sempre meno interessato a esercitarla. È la prima volta che si vota a settembre ed i segni di disaffezione degli italiani verso la politica sono forti da tempo. Quanta astensione si aspetta? 
«Tanta. Nel 2018 votò il 73% circa degli aventi diritto, con un calo di più di due punti rispetto al 2013, che a loro volta segnavano un calo di più di cinque punti rispetto al 2008. Se prosegue questo trend, e considerando sia il voto autunnale, sia una campagna elettorale finora mediocre, possiamo aspettarci che la partecipazione scenda al di sotto del 70%. Non troppo al di sotto, spero». 
Quanto può crescere l'astensione prima di diventare allarmante per le istituzioni?
«Credo che allarmante lo sia già. Se l'astensione fosse il segno di un'adesione talmente profonda alle istituzioni per cui, tutto sommato, va bene chiunque governi, non ci sarebbe da preoccuparsi poi troppo. Al più, sarebbe il segno di un Paese poco "partecipante" perché concentrato sul mercato e sulla società civile». 
Non è così? 
«Purtroppo no. In un Paese tradizionalmente assai "politico" come l'Italia, l'astensione è il segno di una fuga dalla vita pubblica alimentata dal disprezzo e dalla delusione, quando non dalla disperazione. Un segnale pessimo». 
L'ultimo presidente del consiglio scelto dagli italiani è stato Silvio Berlusconi, dimessosi undici anni fa. Il fatto che i risultati elettorali abbiano poco o nulla a che vedere con chi governa è una delle causa dell'astensione?  
«Non direi che sia l'unica causa, ma di certo è almeno una concausa. Vogliamo dire le cose come stanno?».  
Prego.   
«L'Italia è un Paese a sovranità limitata. Lo spazio per le politiche pubbliche nazionali resta compresso dal "vincolo esterno", e anche il ceto di governo deve essere, almeno in una certa misura, "valida to" dal di fuori. La pressione del vincolo esterno ha contribuito (contribuito: ci abbiamo messo anche molto del nostro) a fare a pezzi il sistema politico italiano. E l'esplosione del sistema politico, come in un circolo vizioso, ha esposto ancora di più la Penisola al vincolo esterno».
 

 

 

Quindi ha ragione chi dice che votare è inutile? 
«Quel che vogliono gli italiani negli ultimi dieci anni qualcosa ha contato, ma mica troppo. E gli elettori, che non sono affatto scemi, se ne sono accorti. Del resto, se nel 2018 dai la maggioranza a Lega e Cinque stelle, e poi ti ritrovi con Mario Draghi, forse qualche piccolo problemino di democrazia ce l'hai...».
Come si può ricucire il rapporto tra il "popolo" e il "palazzo"? Una riforma istituzionale che faccia scegliere agli italiani chi governa può essere una soluzione, almeno parziale? O rischia di farci fare l'ultimo passo verso l'abisso, come dicono tanti a sinistra? 
«Mi fanno un po' ridere quelli che vedono nel rafforzamento del potere di scelta degli italiani un pericolo populista, la deriva verso una democrazia illiberale alla Orbán. Perché il nostro problema oggi non è la democrazia illiberale, ma il liberalismo antidemocratico: troppi contropoteri, interni ed esterni, e gli elettori non contano più niente. Sia chiaro: i contropoteri liberali sono assolutamente imprescindibili. Ma oggi lo squilibrio non è certo a favore del povero popolo votante. L'emergenza è ridare un po' di centralità e di capacità decisionale agli italiani. Continuando a curare i contropoteri, ripeto».
Intanto la campagna elettorale del centrosinistra è polarizzata su Giorgia Meloni e il tema dominante è l'antifascismo. Stupito? 
«Figuriamoci. In una politica come quella italiana, prigioniera di un'eterna coazione a ripetere, come potrei essere stupito? Sarei stato favorevolmente sorpreso del contrario. La cultura di parte progressista è in pezzi, non riesce a capire più il mondo nel quale viviamo, non tira più fuori un'idea da anni. Di conseguenza è in pezzi la politica di parte progressista. Come avrebbero mai potuto resistere a rivolgere l'antifascismo contro Meloni? Troppo facile. E soprattutto: se non dicevano quello, avevano altro da dire?».
Ma funziona ancora? È un argomento valido per una coalizione accreditata di un divario di oltre dieci punti rispetto al centrodestra? Il Pd e i suoi alleati non rischiano, con simili messaggi, di parlare solo ai loro elettori? E concentrare tutta l'attenzione sul leader avversario non finisce per esaltarne la figura? 
«No secco alle prime due domande, e sì secco alle ultime due. L'antifascismo non funziona, anche perché è un'arma della quale si è enormemente abusato in passato e gli italiani non ci credono più. Del resto, se prima dici che Berlusconi farà un regime parafascista e quello non lo fa, quando poi dici che Meloni farà un regime parafascista, le persone non ti credono più. È la favola di "al lupo, al lupo", insomma. Dal 1994 a oggi la sinistra postcomunista riesce solo, come si dice in inglese, a "preach to the converted", a parlare al proprio elettorato "interno".
Con l'aggravante che questo si restringe sempre di più».
Legata al tema della presunta resurrezione fascista è la «elezione diretta del presidente della repubblica», promessa, seppure in termini così vaghi, nel programma del centrodestra. Gustavo Zagrebelsky dice ciò che molti a sinistra pensano: essa non si addice agli italiani, poiché «esiste una nostra attitudine a servire il potente che è ampiamente dimostrata dal consenso plebiscitario a Mussolini sotto il fascismo». È un argomento fondato? 
«Più o meno come quello che i neri hanno il ritmo nel sangue. Torniamo agli stereotipi nazionali di fine Ottocento, al "carattere dei popoli". L'elezione diretta del capo dello Stato si addice benissimo agli italiani, deve solo essere costruita nel modo migliore. Da due punti di vista: la procedura di riformava organizzata bene, coinvolgendo anche l'opposizione; e il sistema dei contrappesi va disegnato con giudizio».
Il numero di governi che si succedono in Italia certifica che abbiamo il problema della stabilità degli esecutivi. C'è un modello migliore degli altri per risolverlo, e magari far tornare agli italiani la voglia di votare?
«Sono sempre convinto che una qualche forma di scelta elettorale diretta del vertice dell'esecutivo sia, se non indispensabile, quanto meno fortemente benefica a una democrazia. Soprattutto una democrazia nella quale i partiti sono ormai debolissimi - diversamente, ad esempio, da quel che accade in Germania, dove i partiti ancora un po' tengono. Possiamo immaginare un modo per far designare al corpo elettorale il presidente del consiglio, imitando il sistema britannico, o puntare all'elezione diretta del presidente della repubblica, alla francese. Mi andrebbero bene entrambe le soluzioni, purché ben disegnate».
Rischia di essere l'ultima chiamata?
«In Italia sono decenni che dobbiamo "fare presto" e che è la nostra "ultima possibilità". L'ultima "ultima possibilità" è il Pnrr. Una retorica catastrofistica stucchevole e dannosa, un altro modo per accrescere artificialmente il tasso di isteria del Paese. A me sembra ormai chiaro come il nostro Paese non sia a rischio d'infarto, ma di demenza senile: non ci sarà una frattura traumatica, ma stiamo vivendo una lunga, lenta degenerazione. Perciò se non interveniamo ora avremo altre occasioni. Ma più andiamo avanti, più dovremo lavorare su una sostanza deteriorata».

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