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Renzi fa il bullo ma si illude: ecco perché rischia grosso

Pietro Senaldi
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Matteo Renzi ha un cervello fino, ma ha il difetto di avere la lingua più lunga del cervello e la memoria più corta di un pelo del naso. «Berlusconi è game over», disse l'allora rottamatore dell'uomo che ancora oggi, a 86 anni suonati, lo sopravanza nel gradimento elettorale degli italiani, e senza neppure aver avuto bisogno di allearsi con Renzi. Oggi, misteriosamente galvanizzato dal fatto che il Pd di Letta ha preso un punto percentuale in più del suo, cinque anni fa, ha sentenziato che «il partito è finito, il futuro siamo noi di Italia Viva». Tanto spietato con gli altri, specie se ex compari, quanto generoso con se stesso.

 

 

Non occorre essere stato a capo del partito per realizzare che i dem sono in grande difficoltà. Lo riconoscono per primi gli stessi dirigenti, dichiarando con la medesima leggerezza e noncuranza con le quali si chiede un caffè al bar che «il problema è che si è persa l'identità, non sappiamo più chi siamo». Scambiano il cancro per un raffreddore. Però, se è convinto di portare a sé tutte le fiches che ha lasciato sul piatto quando fu costretto a lasciare la segreteria, Matteo da Rignano si conferma un pokerista con più coraggio che testa, quindi alla lunga perdente. Uno studio di Youtrend dimostra che Azione e Italia Viva nella città di Torino, feudo della sinistra, hanno preso i medesimi voti, quartiere per quartiere, di quelli raccolti dalla lista di Monti nove anni fa. Tanta acqua è passata sotto i ponti, M5S è esploso e poi scoppiato, il centrodestra ha cambiato due volte le gerarchie interne, ma quello era ed è rimasto il bacino elettorale dell'Agenda Draghi, che prima era Agenda Monti, non nella sostanza ma nella percezione dei cittadini.

 

 

 

Renzi e Calenda potranno arricchire le file dei parlamentari al loro servizio, fare campagna acquisti da sinistra e da destra, come hanno già in parte fatto, riuscire forse a racimolare truppe sufficienti a tentare l'ennesimo ribaltone, ma la loro pesca ha dato quel che poteva al primo giro, come da sempre in tutte le scissioni, e difficilmente ce ne sarà un secondo. La strana coppia non riuscirà a svuotare il Pd, chiunque ne diventerà segretario dopo Letta. Piaccia o no, il partito fonda la sua forza numerica, che è anche la sua debolezza politica, su uno zoccolo duro di sinistra post-comunista molto più agguerrito, numeroso e radicato di quanto non sia la cosiddetta destra post-fascista sopravvivente in Fdi. Se il nuovo leader guarderà a sinistra, i dem torneranno ad allearsi con M5S nella speranza di riprendersi quel buon terzo di voti che i grillini gli hanno sottratto senza più restituirli e gli elettori moderati continueranno a foderarsi gli occhi di prosciutto. Se invece il prossimo segretario avrà un profilo progressista, il Pd andrà incontro a un'ennesima scissione e sarà Renzi a subire l'opa ostile dei dem. In politica paga il nuovo e, pur muovendosi in svariate direzioni, il leader fiorentino ha sempre dato l'idea di non essersi spostato un centimetro dal baricentro dei propri interessi».

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