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Comunisti, il falso mito: non sono gli unici alfieri dell'antifascismo

Francesco Carella
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La marcia su Roma, di cui ricorre il centenario, giunge pochi mesi dopo lo "sciopero legalitario" - indetto nei primi giorni di agosto 1922 - dall'Alleanza del lavoro in segno di protesta contro le continue violenze perpetrate dagli squadristi. La risposta all'iniziativa del mondo del lavoro non tardò ad arrivare e si concretizzò attraverso una serie di rappresaglie durissime che portarono alla distruzione definitiva di quel poco che rimaneva ancora in piedi delle organizzazioni operaie. Furono gli ultimi eventi di una lunga catena di sconvolgimenti economici, sociali e culturali - maturati all'indomani del primo conflitto mondiale - che alimentarono sia sul versante politico di destra che su quello di sinistra la crescita di forze antiliberali e antiparlamentari.

Sia a destra - con il combattentismo e il nazionalismo - che a sinistra - dove forte era il fascino esercitato dalla rivoluzione bolscevica- si affermarono modi d'intendere la lotta politica estranei alle regole della democrazia liberale. In quelle calde settimane di agosto divenne evidente ciò che già s' intuiva nei mesi precedenti ovvero che lo Stato liberale non era più in grado di rispondere con energia e risolutezza alle violenze fasciste così come fu chiaro che i partiti antifascisti più che impegnarsi nella ricerca di un accordo di governo che fosse in grado di riportare in capo agli organi dello Stato il monopolio della forza preferivano esercitarsi in lotte interne tanto astratte quanto inutili.
 

 

 

LE LEGGI DI ROCCO
In un contesto siffatto prese l'avvio il 31 ottobre il governo guidato da Benito Mussolini al quale una larga maggioranza - in cui figuravano anche esponenti liberali, popolari, democratici e nazionalisti - concesse pieni poteri. «Per la prima volta nella storia delle democrazie liberali europee e dello Stato italiano - scrive lo storico Emilio Gentile in Fascismo, storia e interpretazione - il governo veniva affidato al capo di un partito armato, che aveva una modesta rappresentanza parlamentare, ripudiava i valori democratici e proclamava la volontà rivoluzionaria di trasformare lo Stato in senso antidemocratico». Trasformazione che ebbe iniziò, di fatto, con il discorso che Mussolini tenne alla Camera il 3 gennaio 1925 e fu completata nei mesi successivi con l'instaurazione «di un regime a partito unico attraverso l'approvazione di un complesso organico di leggi autoritarie elaborate dal giurista Alfredo Rocco». Fatto ciò, si poté dire addio al sistema parlamentare. Come finì è cosa tragicamente nota. Dopo cento anni dalla "marcia su Roma" e nonostante numerosi studi scientifici considerati illuminanti su quel periodo storico, il tema del fascismo continua ad essere un terreno divisivo nel discorso pubblico del nostro Paese.

 

LA DIVISIVITÀ
Non si va molto lontano dal vero se si scrive che tale divisività trae origine da una distorta interpretazione del Ventennio presentato come il risultato di un'operazione compiuta dal grande capitale in chiave anti-operaia. Di tutto ciò si trova traccia già nei primi anni '20 in un documento dell'Internazionale comunista secondo cui gli avvenimenti italiani altro non sono che «il segno manifesto della dissoluzione dell'economia capitalistica e della corruzione dello Stato borghese». Anche nelle "avanzate" tesi di Lione scritte da Antonio Gramsci e da Palmiro Togliatti nel 1926 in preparazione del III congresso del partito, pur individuando nel fascismo l'esistenza di una base significativa fra la piccola e media borghesia urbana, si ritiene valida la tesi internazionalista con la quale non si riconosce al fascismo alcuna autonomia rispetto agli interessi industriali. Eppure, che qualcosa di nuovo stesse avvenendo nel nostro Paese non comprimibile entro gli schemi marxisti veniva avvertito dai più attenti intellettuali di area non comunista. In tal senso, è sufficiente citare Gaetano Salvemini, il quale con la sua consueta chiarezza - in Sotto la scure del fascismo - avverte che «se il fascismo aveva inizialmente operato come un'organizzazione di mercenari al servizio del capitale, ormai da molto tempo le cose non stavano più così. Il fascismo era divenuto senza alcun dubbio una forza indipendente».


SALVEMINI E DE FELICE
Ciò che Salvemini ( insieme ad altri intellettuali che non citiamo per ragioni di spazio) aveva empiricamente intuito, Renzo De Felice, a partire dalla metà dagli anni Sessanta, lo documenta attraverso una lunga e meticolosa ricerca di archivio. «I finanziamenti ci furono - scrive ma limitati al triangolo industriale e comunque effettuati in gran parte dopo la marcia su Roma». Una tale interpretazione produsse, ad opera della sinistra comunista, attacchi furibondi contro De Felice che venne subito accusato di «volere spogliare il fascismo dai suoi tratti di reazione di classe». Le polemiche si tramutarono in vero e proprio linciaggio via via che lo storico reatino mandava in libreria i volumi della sua imponente biografia del Duce in cui si parlava, con dati di fatto e senza il velo di pregiudizi ideologici, «di consenso crescente verso il regime fra gli anni Venti e Trenta con vette di vero e proprio entusiasmo fra il '29 e il '34».

Si tratta di acquisizioni che smentiscono decisamente quanti rappresentano il Ventennio come una semplice espressione degli interessi del grande capitale. In tal modo, altresì, viene demolito l'impianto politico con il quale Togliatti cercò nel Dopoguerra di accreditare il Partito comunista come unico baluardo dell'antifascismo. «Se il fascismo era sempre in agguato scrive Ernesto Galli della Loggia in Miti e storie dell'Italia unita - perché collegato al capitalismo, erano i comunisti a dovere essere considerati i veri difensori della democrazia. Infatti, in quanto anticapitalisti, solo i comunisti miravano ad estirpare dalla società italiana le vere radici del fascismo». A giudicare dai comportamenti della sinistra durante la recente campagna elettorale la sensazione che si ricava è che siamo ancora fermi al demagogico e antistorico "fascismo eterno". 

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