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Legalità, perché ordine e legge non appartengono alla sinistra

Corrado Ocone
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Legalità è uno di quei termini di cui negli ultimi decenni si è appropriata la sinistra. Indebitamente, essendo "legge e ordine" un classico concetto conservatore. Laddove nel dna della sinistra c'è sempre stata invece l'idea di sovvertire l'ordine sociale esistente mettendo in discussione i rapporti di produzione e in fin dei conti il sistema capitalistico. Già Marx aveva giustificato la violenza, definendola "levatrice della storia", nella convinzione che "la rivoluzione non è un pranzo di gala". Certo, dai suoi tempi e da quelli successivi di Lenin molta acqua ha transitato sotto i ponti. Ed oggi l'idea di rivoluzione non è più proponibile, essendosi autoscreditata con le migliaia di morti e tragedie che ha causato nel Novecento. Sono state rotte tante uova, per parafrasare Stalin, mala frittata della società comunista non è stata fatta.

Non si può tuttavia negare che quell'imprimatur originario, riportato in vita dal "lungo Sessantotto" italiano, faccia ancora oggi affiorare tracce evidenti per quanto opportunisticamente nascoste. Si pensi, solo per fare un esempio, alle parole che incitano alla violenza che si ritrovano negli slogan di tanti manifestanti, anche perle più "nobili" cause, oppure nelle canzoni di protesta che hanno accompagnato la storia della sinistra ed anche nella Resistenza.

 

 

 

Riflessi atavici portano ancora oggi il popolo di sinistra a dire "polizia fascista" ad ogni minima occasione; oppure a tollerare le tante e più o meno piccole illegalità di cui sono protagonisti i centri sociali o gli sbandati che si ritrovano per organizzare in proprietà private i cosiddetti "rave party".

In Italia soprattutto o quasi esclusivamente, tanto che spesso sul nostro suolo, come a Modena, confidando nel lasciar fare delle forze dell'ordine, si danno appuntamento gli sballati di mezza Europa. In parallelo, e in contraddizione, con questa tendenza a tollerare l'illegalità politicamente orientata, a partire da Mani Pulite si è sviluppata sempre a sinistra una retorica della legalità. Sono nati, ad essa intitolati, "presidi", centri, movimenti, e nelle manifestazioni la legalità è stata gridata ai quattro venti. Era però una legalità a senso unico e soprattutto innocua perché rivolta contro concetti astratti e generali quali Mafia e Corruzione.

 

 

Non che nel nostro Paese non ci siano mafiosi e corrotti, ma a questi la Legalità intesa astrattamente fa un baffo. Anzi spesso viene usata da "professionisti della legalità", e dagli stessi mafiosi e corrotti, come strumento per coprire malefatte o per fare ulteriori affari. Quella impunità di cui ha invece goduto la microcriminalità a sfondo politico ha portato alla mancanza di sicurezza e al degrado che possiamo facilmente osservare nelle nostre città, e soprattutto nelle nostre periferie. Che dignità può mai avere uno Stato che non fa rispettare le sue stessi leggi e che fa della legalità e dell'ordine pubblico un optional? È per questo che i primi passi del governo sull'ordine pubblico, in primo luogo l'azione del ministro degli Interni (che continua per molti versi quella intrapresa a suo tempo al Viminale da Matteo Salvini) hanno rappresentato una sorta di "rivoluzione copernicana" (si pensi anche all'ordinanza volta a far rispettare quell'altra legalità tollerata che è l'attracco nei nostri porti di imbarcazioni con bandiera straniera colme di immigrati senza permessi e controllo). Che si ripristini la legge e il senso dello Stato è una buona notizia, anche perché la storia e il pensiero dell'età moderna ci dice che libertà individuale può maturare solo all'interno di uno Stato forte. Forte, beninteso, nel far rispettare la legge e garantire la sicurezza dei cittadini, ma "minimo" e non invasivo nei confronti della vita e delle attività private degli stessi.

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