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Elly Schlein, perché gli aiuti a Kiev le fanno venire il mal di testa

Iuri Maria Prado
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Ma costa così tanto all’osservatore di sinistra, quello che pure fa mostra del distintivo occidentale e atlantista, e reclama fermezza contro i macellai dell’operazione speciale, gli costa così tanto riconoscere che l’Italia deve a Giorgia Meloni, non ai biascicamenti né ai voti controvoglia dei ranghi progressisti, la propria resistenza all’assedio del pacifismo collaborazionista? Pesa così tanto, a questo sistematico assolutore di qualsiasi sproposito di sinistra, gli pesa così tanto ammettere che nessun oligarca progressista avrebbe mai fatto un discorso come quello che ha tenuto l’altro giorno Giorgia Meloni in Parlamento, in faccia ai burattini della pace per procura cremliniana?

Dice: ma anche a destra c’è gente che lavora contro gli aiuti alla resistenza ucraina. Appunto: ragione in più per riconoscere il merito della presidente del Consiglio che ha riaffermato, anche avverso le opposte ambizioni di parte della propria maggioranza, il dovere di non dare il nome di pace alla vittoria dell’aggressore. Dice: ma anche la sinistra responsabile ha sempre assicurato il proprio supporto. Sì, a suon di supercazzole.



Tipo che il sostegno all’Ucraina «non è una scelta da condannare» (così, testualmente, Elly Schlein), che non so semi spiego: aiutare gli aggrediti non è proprio roba di cui vantarsi, ma insomma si può perdonare. O il predecessore, Letta, che tra una missione presso i cortei “Nato go home” (Nato, non Putin) e un doveroso omaggio alle manifestazioni dei partigiani del 26 aprile e dei vignettisti antisemiti, butta lì che una pace mica tanto buona (quante città agli invasori? Cinque? Dieci?) è comunque meglio di una guerra in ogni caso cattiva: applausi dai capilista pro Hamas del Partito democratico. Ma tutti questi sono dettagli, per l’osservatore di sinistra. D’altra parte Giorgia Meloni mica l’ha detto in vernacolo antifascista che bisogna aiutare l’Ucraina. E allora non vale. 

 

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