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La scuola del merito parta dai professori: anche loro vanno valutati

Marco Cimmino
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Del merito: parliamo della scuola del merito. Mica semplice, giacché il concetto di meritare nasce dal verbo latino mereo, che significa, al contempo, meritare ed essere pagati. Già l’origine etimologica del merito scolastico, perciò, coi tempi che corrono ha sfumature vagamente paradossali. Se, poi, consideriamo il fatto che un verbo molto simile, maereor, significa, a un dipresso, piagnucolare, il cerchio si chiude. Perché, dietro all’idea di merito e del suo derivato, meritocrazia, si nasconde una visione della scuola affatto diversa dalla realtà. Nell’immaginario collettivo, infatti, la classe docente parrebbe inclinare maggiormente verso il piagnisteo che verso la virile richiesta di essere valutata e remunerata secondo le proprie capacità. Viceversa, mi verrebbe da dire che il problema è proprio questo: valutare le capacità o, se si preferisce, usando un termine più legato alla stretta economia, la redditività. Di tutti, intendiamoci: studenti, docenti, personale ATA, amministrazione. Di tutti senza infingimenti, senza pannicelli caldi e senza atteggiamenti draconiani: serenamente, ma obbiettivamente. Solo che questa nobile aspirazione viene onninamente frustrata da tutta una serie di ostacoli tangibili, che si oppongono a una scuola delle diversità, a favore di una scuola delle uguaglianze. E, allora, in primo luogo, risolviamolo questo equivoco dell’uguaglianza: meraviglioso portato dell’Illuminismo, applicato al proprio comodo.

UGUAGLIANZA
Uguaglianza significa che tutti devono avere i medesimi diritti: che il ricco e il povero devono essere messi in condizione di competere, nella corsa al successo, con gli stessi strumenti e le stesse opportunità. Non vuol dire che siamo tutti uguali per decreto e che il successo deve essere garantito al genio come al cretino, allo studioso come al somaro. Detto così, siamo tutti d’accordo: quando, però, si entra nel mondo della scuola, questo semplicissimo assioma va a carte quarantotto. Perché, nel meraviglioso mondo della pubblica istruzione, le cose vanno esattamente al contrario. Tanto per cominciare, la nostra scuola è clamorosamente sbilanciata verso il basso: se uno studente ha la sfortuna di essere brillante e capace, passerà gran parte del suo percorso scolastico a sentir ripetere sempre gli stessi tre o quattro imparaticci, finché anche l’ultimo degli asini non li abbia debitamente metabolizzati. E si annoierà a morte, perderà il proprio tempo, si concentrerà su altro: psicologi e docimologi possono pure inventarsi tutte le sofisticate panzane del mondo, ma le cose stanno così, nella realtà fenomenica. Io lo vedo da decenni: non lo studio con un telescopio dalla mia poltrona Chesterfield. Il mantra del recupero, affinché, a calci o a carezze, tutti arrivino a un diploma o a una laurea che hanno perso, proprio per questo meccanismo, il loro valore intrinseco, è l’esatto contrario del concetto di merito: in un’atmosfera surreale di accanimento diagnostico, spesso opera di psicologi interessati a mantenersi la clientela, fioccano i DSA e i BES, ovvero gente che, in virtù di disturbi dell’apprendimento o di problemi socio-familiari, veri o presunti, appartiene a una casta di intoccabili, che, di riffa o di raffa, la sfanga sempre, fino al succitato titolo di studio. Naturalmente, a discapito di chi i disturbi li abbia per davvero. E gli altri, direte voi? Gli altri si arrangino: giochino col cellulare o si dedichino ai cruciverba, mentre si recupera il recupero del recupero dei meno attrezzati. E questa logica, che penalizza sempre e solo i migliori, le cosiddette eccellenze, si applica, ovviamente, anche ai docenti.

 


Partiamo dal reclutamento, che oggi è una sorta di corsa a ostacoli, impreziosita da crediti, corsi e webinar assortiti, ma che è già afflitto dal livello molto basso raggiunto dalla preparazione universitaria, dispersiva e aselettiva nonché assai dispari da ateneo ad ateneo. Insomma, i laureati di oggi, adonta delle statistiche trionfali, sono molto meno preparati di quelli di ieri, che lo erano, a loro volta, di quelli dell’altrieri: questo, dovrebbe imporre qualche riflessione, ma poiché contraddice la vulgata, si fa finta di nulla. E, poi, nel reclutamento e nell’utilizzo degli insegnanti non si tiene conto di alcuni fattori che, viceversa, dovrebbero incidere sull’inserimento del laureato nel percorso professionale: il tipo di concorso, il punteggio ottenuto, l’università di provenienza, il voto di laurea, il dottorato, il postdottorato e le pubblicazioni sono tutte sfumature pressoché ininfluenti sulla carriera di un docente.
Per capirci, un laureato in una facoltà telematica con 90/110 e uno che esca dalla Normale di Pisa col massimo dei voti, PhD et ultra, una volta gettati nel calderone hanno esattamente lo stesso spazio di crescita professionale ed economica. Questo perché qualunque scafesso, senz’arte né parte, può progredire e mettere in tasca qualche quattrino, soprattutto se si presta ai millanta progetti, ai potenziamenti, alle figure di riferimento, che, anziché rappresentare un corollario della scuola, ne rappresentano la spina dorsale, costosa, irrilevante culturalmente e inutile.

 

I DIRITTI
Poi, va detto che spesso sono proprio i docenti con meno frecce al proprio arco, i meno preparati e motivati, che interpretano il piagnisteo: le persone serie, di solida cultura, per solito, rifuggono la geremiade e s’illudono che, prima o poi, i loro diritti vengano riconosciuti in punta di giustizia e non di lamentela. Sì, corri corri: la scuola è un mondo paralizzato, immobile, autoconservativo, in cui vigono leggi non scritte che parlano di tutto fuorché di merito. E questo per un insieme di motivi. In primis i sindacati, che sono stati protagonisti dello smantellamento della scuola e della proletarizzazione dei docenti e che, miracolosamente, oggi paiono evaporati e del tutto ignari della situazione. Poi, per l’inutile zavorra dei Decreti Delegati, vecchi di cinquant’anni e fotografia obsoleta di un’idea assemblearista e sovietica della scuola, che andrebbero coraggiosamente cancellati. Infine, bisognerebbe che la scuola si occupasse soprattutto della trasmissione del sapere e della civiltà: non della supplenza in tutte quelle che sono le carenze dello stato sociale, per cui un insegnante debba diventare infermiere, psicologo, assistente sociale, mediatore culturale e baby sitter. Ciò detto, quale sarebbe la soluzione?

Il discorso sul merito e sulla scuola è complesso, ma posso limitarmi a presentare un barlume di visione innovativa: differenziare anziché omologare. Pensare a percorsi diversi, per insegnanti e studenti, a seconda della preparazione, delle inclinazioni, dei titoli, degli accessori. Non la scuola ideale di Gentile, classicocentrica: diciamo un Gentile moderno, in cui, anziché pensare solo alla classe dirigente di domani, ci si preoccupi anche dei tecnici, dei subalterni. Perché il lavoro intellettuale è bellissimo, ma quello manuale o pratico non è da meno. E non bisogna vergognarsene. Viceversa, la sinistra, autoproclamandosi patrona dei lavoratori, ha creato una scuola in cui il lavoro è presentato come una cosa vergognosa. Liceizzare: quanti delitti si commettono in tuo nome! 

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