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Pier Luigi Bersani, Senaldi: con il caldo ha perso la testa

Pietro Senaldi
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La mucca si è spostata dal corridoio. Ormai alberga definitivamente nel cervello di Pier Luigi Bersani, suo inventore, avvistatore ed estimatore storico, e purtroppo ne divora i neuroni. La pesante diagnosi è arrivata dopo la lettura dell’intervista che l’ex segretario del Pd ha rilasciato alla Stampa, in un bar romano, plausibilmente dopo un paio di birrette di troppo; si sa che i vizi non spariscono con l’età. Tonificato dalla 43esima commemorazione della strage alla stazione di Bologna, il talent scout che scoprì Speranza e la Moretti e li regalò alla politica italiana ha deciso di parlare di qualcosa di nuovo: il presunto fascismo del governo di destra. Per un uomo che fu delle istituzioni, Bersani l’ha sparata pesantissima, affermando che «la Meloni non merita rispetto, benché sia premier, perché non ha parlato di matrice neofascista in riferimento all’eccidio del 2 agosto 1980». Il nostro parla con disinvoltura di «sentore di manganello» perché la maggioranza medita una commissione d’inchiesta sull’ex presidente Inps Pasquale Tridico e le truffe sul reddito di cittadinanza o sugli errori nella gestione del Covid, ma non gli sfiora neppure il sospetto di essere il primo a delegittimare le istituzioni democratiche. Per finire nel libro nero dei progressisti ora non bisogna neanche più dire cose che a lor signori non piacciono; è sufficiente non usare le esatte parole che essi gradiscono per descrivere un evento. Che poi anche se le usi, come ha fatto il presidente del Senato, La Russa, parlando di «strage neofascista come da verità giudiziaria», il massimo riconoscimento che può arrivarti da sinistra è essere ignorato.

 

 


Ascoltato dalla collega Francesca Schianchi, Bersani si dichiara tutto soddisfatto («mi sento meglio adesso») di non essere più in Parlamento e di essere passato al ruolo di cattivo maestro o avvelenatore di pozzi, parte che interpreta con rara abnegazione, contestando al governo qualsiasi cosa. In particolare, critica la politica economica della maggioranza «che metterà l’Italia fuori dai binari». Motivo? Non si fa il salario minimo, i poveri sono sempre più poveri e abbiamo tolto il reddito di cittadinanza via sms (balla colossale). Insomma, abbiamo ereditato una situazione difficile dopo lustri di governi a guida Pd e in meno dieci mesi ancora non è stato fatto tutto quello che i dem non hanno realizzato in oltre dieci anni.
Parole dolci, ma neanche più di tanto, l’ex segretario le ha solo per la Schlein: «Almeno ha rianimato la compagnia», sintetizza in un commento che sa di epitaffio, specie perché accompagnato dall’invito «a tenere il partito aperto e accogliente»; e qui si sente una sintonia con il pensiero di Prodi e una mano tesa al progetto di Bonaccini, che del prepensionamento di Elly sono la mente e il braccio armato. D’altronde Bersani ammette di non capirla, e forse questo è il maggior complimento che le fa, quando afferma che «i giovani hanno uno sguardo su di lei totalmente differente da quello della mia generazione, chele contesta l’evanescenza».

 


Con la mucca nel corridoio, come con quella nel cervello, il leader di Bettola non cambia mai, e questa è una delle poche certezze del Pd. A declassarlo da leader a vecchio saggio (o trombone, a seconda dei gusti) sono stati i grillini, contro i quali egli si schiantò, dopo le elezioni pareggiate con Berlusconi, nel tentativo di varare un’alleanza M5S-Dem, riuscito nella storia solo a Renzi che Pier Luigi odia («il suo cuore è lontano dalla sinistra») -, ma dopo essere uscito dalla ditta, altrimenti non ce l’avrebbe fatta neppure lui. Eppure Bersani è ancora lì, dopo dieci anni, a invocare «un palco insieme e una convergenza su due o tre temi». «Spiace», come direbbe il suo conterraneo Inzaghi, ma l’ex capo del Pd ormai è un disco rotto. Rimprovera, correttamente, alla Schlein di scaldarsi su temi identitari, quasi scontati a sinistra, ma di essere incapace di dare sostanza, ovverosia proposte di soluzioni concrete, alle rivendicazioni economiche e sociali del partito, però non si accorge di essere rimasto indietro di un decennio, cosa che lui rimprovera alla destra per la vicenda dell’obbligo di cravatta ai deputati. Fosse solo la cravatta. Qui il problema è anche per lui l’armocromista, perché al rosso che ha in testa Bersani non si abbina nulla.

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