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Napolitano, così innescò la faida-Pd: la sua mano dietro a Renzi

Pietro Senaldi
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Comprensibile che Matteo Renzi pianga accorato Giorgio Napolitano. L’ex presidente sacrificò il suo pupillo, Enrico Letta, da lui scelto personalmente nel 2013 come premier, per spianare la strada di Palazzo Chigi al Rottamatore solo un anno dopo. Re Giorgio non lo fece per stima personale, ma questo comprensibilmente l’ex sindaco di Firenze non lo ricorda, bensì per calcolo disperato, per non far naufragare l’idea del Pd come partito di governo; e per rimediare a un suo errore. La storia ha dimostrato che il tentativo ha solo rallentato i tempi di cottura dei dem e che la toppa tappò il buco solo per una legislatura.

 

GOVERNO LETTA
Il governo Letta era debole, bombardato al suo interno dalla sinistra, dopo che Renzi aveva vinto le primarie del Pd e, fuori dal Parlamento, scalpitava per diventare capo del governo.

Legittima aspirazione: poteva il segretario di quello che allora era il primo partito italiano restare confinato a Firenze? L’esecutivo poi era inconsistente anche a livello internazionale. Il premier era succube di Parigi e Berlino, in un’Europa che l’infelicemente sereno Enrico non voleva e non riusciva a mettere in discussione e ancora non era stata salvata dal bazooka di Mario Draghi. Eravamo anche diventati periferia del Mediterraneo, sbalzati in Libia dalla guerra contro Gheddafi e scomparsi dallo scenario mediorientale, con il solo ruolo di hub per migranti illegali e profughi, doppia porta d’ingresso allora, dall’Africa e dall’Est.

Napolitano, che come faro ha sempre avuto sbarrare la strada del governo al centrodestra e a Silvio Berlusconi, si risolse a puntare su Renzi per evitare di portare l’Italia al voto e i dem alla sconfitta, cosa che già avrebbe dovuto fare l’anno precedente, all’indomani delle elezioni pareggiate da Pierluigi Bersani. Le cronache raccontano che Letta venne liquidato dal presidente durante un pranzo organizzato allo scopo al Quirinale nel quale Re Giorgio si liberò di Enrico dicendogli in belle maniera quello che il Rottamatore continuava a ripetergli con frequenza sempre più ridotta: non sei capace.

Comprensibile anche che Renzi ricordi il suo presidente come un grande riformatore. Quello che l’ex premier omette stavolta è che Re Giorgio riformò sì, ma senza passare dalle vie istituzionali, ovverosia senza fare riforme vere bensì attraverso colpi di mano. Lo fece quando chiamò lui al governo e lo fece due anni e mezzo prima, nel 2011, atto finale della sua manovra per spodestare Berlusconi e mettere a Palazzo Chigi Mario Monti, che pretese per il servizio lo scranno di senatore a vita.

Neppure Draghi, quando venne la sua ora, ebbe l’ardire di rivendicare per sé tanto, malgrado i meriti maggiori, forse anche per merito dell’interlocutore al Quirinale, nel frattempo cambiato. Napolitano, nascondendosi dietro il feticcio della stabilità, contribuì in maniera decisiva a consolidare la pratica del ribaltone, in base alla quale in Italia i governi possono cambiare di colore, dal centrodestra al centrosinistra – il caso opposto è ancora un inedito- senza ripassare dalle urne. Fu riformista emendando a bizza sua la Costituzione anche nel farsi rieleggere al Colle dopo la scadenza del mandato, vulnus della Repubblica. Certo, la giustificazione fu che i partiti erano incapaci di eleggere il suo sostituto, ma quei partiti poi altri non erano che il Pd, che bruciò nientemeno che Romano Prodi per far fuori Bersani, e sui dem il Colle avrebbe potuto esercitare la sua influenza diversamente.

 

CALCI ALLA COSTITUZIONE
Ricordiamo questi strappi alla Costituzione, fra i quali la benedizione della guerra in Libia, sempre per fare un dispetto a Berlusconi a costo di fare un favore ai francesi, non per infierire sadicamente sulla memoria del presidente, e neppure per masochismo. Il punto è che tutti questi calcetti alla Costituzione, assestati con il pretesto di aggiustare le istituzioni, hanno provocato invece il collasso della politica e in particolare della sinistra, spianando la strada ai grililni, che sono ancora oggi una minaccia per la vita del Pd. Napolitano incoronò Renzi perché, agonizzante il pony che aveva scelto, egli fu costretto a puntare sul cavallo vincente, il quale regalò ai dem una fiammata di due anni ma finì però per incendiare tutta la sinistra. 

È la fotografia del passaggio di campanella tra Letta e Renzi che immortala la stagione dei veleni del Pd, apparecchiata dal massimo esponente sul Colle. La lezione che davvero lascia Napolitano all’Italia è che, a furia di masturbare il giocattolo per assecondare le proprie fantasie, lo si rompe. Brighi per mantenere il tuo partito senza voti a capo della baracca e, in successione, ti ritrovi in tolda i suoi rivali, prima M5S e poi il centrodestra. Nel frattempo, hai seminato zizzania nel tuo giardino di casa, che era uno e grande e ora si ritrova diviso in vari e indefiniti appezzamenti, tutti scarsamente coltivabili.

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