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Islam, quel masochismo miope della casta intellettuale

Francesco Carella
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Nel lontano 1979, allorquando l’ayatollah Khomeini defenestrò lo scià Reza Pahlavi e trasformò l’Iran in una Repubblica islamica due sole voci si distinsero rispetto al coro di entusiasmo con cui venne accolta quella rivoluzione dalla cosiddetta intellighenzia progressista europea. Il Cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt, intuendo che sul terreno internazionale si stavano ponendo le premesse per una lunga stagione dai contorni politici oscuri dichiarò che «era giunto il momento di cominciare a studiare il Corano». A stretto giro dall’Università di Princeton l’orientalista Bernard Lewis rispose lanciando l’allarme su ciò che stava accadendo a Teheran. «Altro che libertà per il popolo iraniano», scrisse. «Khomeini lavora per instaurare una Repubblica teocratica e totalitaria». Oggi non se ne ricorda quasi nessuno anche perché le osservazioni di Schmidt e Lewis furono all’epoca liquidate dall’establishment politico e accademico come timori avanzati da chi vive fuori della storia. Viceversa, uno studioso di politica con cattedra ad Harvard colse la singolarità di quegli allarmi al punto da farne l’oggetto di una rigorosa ricerca scientifica durata oltre dieci anni.

E nel 1996 fu pubblicato The Clash of Civilizations, in cui Samuel Huntington mette in guardia circa i pericoli che corrono le società aperte dell’Occidente dimostrando che «i punti caldi dello scacchiere internazionale si trovano lungo le linee di faglia delle diverse culture». Osserva il professore: «Il vero problema non è il fondamentalismo come molti credono, ma l’islam in quanto tale. Una civiltà diversa le cui popolazioni sono convinte della superiorità della propria cultura e ossessionate dallo scarso potere di cui dispongono. In uno scenario dove emerge con forza lo sviluppo demografico dei Paesi musulmani come si configurerà la convivenza fra le diverse civiltà?».

 


ORACOLO INASCOLTATO
Uno studio di tale spessore venne accolto con grande freddezza. Vi fu chi nel mondo universitario americano, sotto la spinta del politically correct, lo presentò come «una specie di pastrocchio oracolare». Che di pastrocchio non si trattava l’Occidente se ne accorse, e a caro prezzo, negli anni successivi. Dall’attentato alle Twin Towers del 2001 alle sanguinose azioni terroristiche compiute in molte città europee, dai crimini dei tagliagole fino agli orrori sui bambini commessi lo scorso 7 ottobre in Israele dai terroristi di Hamas, le vittime si contano a migliaia. Nondimeno, occorre prendere atto che presso una parte di pubblica opinione (lo attestano le manifestazioni degli ultimi giorni dove Israele viene messa sul banco degli imputati, mentre Hamas non viene mai citata) vi è ancora una scarsa percezione della minaccia che l’islamismo costituisce per l’Occidente. In tal senso, non si va lontano dal vero se si scrive che la responsabilità di una tale alterazione dei fatti sia da riportare in capo ai tanti maîtres à penser che, dominati dalla preoccupazione di non passare per difensori della cultura liberaldemocratica (della quale ignorano i fondamenti e il fatto che essa sia il progenitore dello Stato di diritto) si sono prodigati nel corso degli anni per fornire un’immagine fuorviante e non realistica dell’islamismo.

 


Ai tanti intellettuali da salotto vale la pena di ricordare che il grande antropologo ed etnologo, Claude Lévi Strauss, in una delle sue ultime interviste ricorda di avere sempre condannato la cultura occidentale ogniqualvolta aggrediva le altre culture. «Adesso ho l’impressione», riconosce «che il movimento si sia invertito e che la nostra cultura sia sulla difensiva di fronte alle minacce esterne e in particolare di fronte alla minaccia islamica. Di colpo mi sento etnologicamente e fermamente difensore della mia cultura». La domanda è: fino a quando i “lietopensanti” continueranno a negare l’evidenza?

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