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Premierato, una mossa per archiviare i flop dei governi tecnici filo-Pd

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Francesco Carella
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Per quanto si cerchi nei manuali di storia comparata non si riesce a trovare un Paese di democrazia liberale in cui al centro del dibattito pubblico ci sia da decenni, come accade in Italia, il problema di una riforma costituzionale che possa garantire al governo in carica la legittima e indispensabile stabilità. La qual cosa dovrebbe indurre l’intera classe politica a riflettere, al di là delle divisioni di parte, sul fatto che probabilmente esista un vizio di origine nel nostro sistema istituzionale per il quale non si è riusciti a trovare fin qui una soluzione.

IL VIZIO D’ORIGINE
Quel “vizio di origine” - che coincide con la nascita della Repubblica all’indomani del Secondo conflitto mondiale- è da ricondurre alla scelta che i Costituenti fecero a favore di un’assoluta “centralità parlamentare”, conferendo deboli poteri al presidente del Consiglio e al suo esecutivo. Una decisione che si configura come il frutto di una particolare contingenza storica in cui le maggiori famiglie politiche (in primo luogo la democratico-cristiana e la socialcomunista) poco convinte dell’attendibilità democratica dell’avversario individuano nel Parlamento il luogo da privilegiare per “una reciproca garanzia”. Fu così che la Repubblica conobbe nel corso della sua vicenda politica solo “governi deboli” e di breve durata (66 diversi esecutivi in 75 anni) quando in alcuni passaggi particolarmente complessi sarebbe stato necessario potere contare su “governi forti” e in grado di dispiegare nel tempo la propria azione al pari di quanto accadeva in altre democrazie occidentali.

 

 

ADDIO REPUBBLICA DEI RIBALTONI
In tal senso, si muove il disegno di legge di riforma costituzionale approvato all’unanimità dal Consiglio dei ministri e imperniato sull’elezione diretta del presidente del Consiglio. Inoltre, di particolare importanza ai fini della stabilità è la norma che prevede, nel caso di dimissioni del premier, che il capo dello Stato possa conferire il nuovo incarico o allo stesso dimissionario o a un altro parlamentare eletto e collegato al presidente scelto dal cittadino elettore. In altri termini, si consegna finalmente alla storia il “vizio di origine” del nostro sistema politico e si mandano in soffitta ribaltoni e trasformismi. Con questa riforma si scrive, altresì, la parola fine sulla stagione dei governi tecnici (tanto cari alla sinistra) i quali, come ammoniva Isaiah Berlin, «altro non sono che una versione aggiornata e moderna dell’ideale autoritario del vecchio governo dei custodi». Una lettura, quella del grande filosofo liberale, che andrebbe raccomandata a tutti coloro che già sono in fibrillazione e che da molti decenni impediscono la realizzazione di una riforma della Carta che punti ad introdurre anche in Italia una forma di “governo governante”. Con le nuove norme occorrerà ottenere la maggioranza dei voti espressi dagli elettori, per assumere la guida del Paese così come la democrazia liberale richiede. Un vero choc per chi è abituato ad andare al potere attraverso le scorciatoie trasformistiche.

 

 

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