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Camera, la denuncia del precario: "Da 21 anni a 500 euro"

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Antonio Castro
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«Il problema non è solo che non arrivo a fine mese. A volte devo scegliere quale pasto fare nella giornata. Magari mangio la pasta a pranzo e una tazza di latte a cena. Stop». A raccontare una quotidianità economica fatta di risparmi, impilando gli spiccioli e inseguendo una stabilità economica che non arriverà mai, è uno dei 345 dipendenti delle cooperative e società che oggi offrono i servizi di pulizia, ristorazione e guardaroba della Camera dei deputati.

Gennaro - il nome è di fantasia, la storia tristemente vera e riscontrabile andando a frugare nelle buste paga che ti sventolano imbarazzati sotto gli occhi - è uno dei tanti di questo girone infernale che vive il paradosso: lavorare nel cuore delle istituzioni (a Montecitorio, appunto), ma portare a casa paghe spesso sotto la soglia di sopravvivenza. «E c’è poco da ribellarsi», gli fa eco un’allarmatissima collega che corre via con il suo carrello delle pulizie, «se i capi delle società che gestiscono le coop di servizio esterno annusano che provi soltanto a lamentarti rischi non solo di incassare i turni peggiori, ma anche di fare orari spezzettati: magari un paio d’ore la mattina all’alba, una lunga pausa non retribuita, per poi chiudere la giornata lavorativa con un altro paio di ore quando il Palazzo ormai è vuoto».

Paradossi di un Paese dove si pensa che chiunque entri nei palazzi della politica porti a casa salari d’oro (il compagno Piero Fassino nel giugno scorso si lamentava della sua indennità di “soli 4.700 euro al mese”). Cuochi, camerieri, baristi, addetti ai servizi di assistenza al personale dipendente e agli onorevoli. Andando a chiacchierare - giurando di mantenere l’anonimato - con quelli che lavorano per le società esterne che hanno in appalto i servizi salta fuori un mondo di dannati. E c’è da strabuzzare gli occhi quando ti fanno vedere il cedolino dello stipendio. Si parte da 400, 500, 700 euro. Lordi. Al mese, non alla settimana.

Il progetto di riportare sotto il controllo diretto di Montecitorio la gestione di questo circo di appalti nasce proprio dalle lamentele. E da bizzarro un ripetersi di appalti curiosamente aggiudicati sempre alle stesse società. Magari, invece di garantire il facchinaggio, si occupano del guardaroba, piuttosto che gestire il bar si occupano del ristorante.
Un “facite ammuina” rivisitato e corretto. Declinato per far lavorare più o meno sempre le stesse società e cooperative. Spostando in coppa chi sta a bascio, a dritta chi sta a manca.
Agli addetti coinvolti (345 quelli censiti dall’Inail) a parte le mansioni poco cambia in soldoni. Precari sono e precari resteranno. C’è chi lavora a Montecitorio da 21 anni e ogni anno a scadenza del contratto deve pregare santi e datori di lavoro di essere ripescato. E di lavorare più ore possibili.

«Quando racconto che lavoro alla Camera», sussurra Danilo, l’accento pesantemente romano, lo sguardo sfuggente quasi a vergognarsi di essere arrivato alla soglia dei 50 anni senza un contratto stabile, «leggo negli occhi del mio interlocutore quel guizzo di chi pensa: chissà quanti bei soldoni porti a casa questo. Poi gli sventolo la busta paga e l’atteggiamento da invidioso diventa di compatimento. Guadagnerei di più a fare il barista nel mio Paese (Danilo vive nell’hinterland della Capitale, ndr), ma dopo tanti anni qui spero sempre che sia l’anno buono, che possa succedere qualcosa di bello, insomma sistemarmie non vivere più alla giornata».

Il “qualcosa di bello” a cui pensa Danilo- e come lui l’esercito di facchini, cuochi, camerieri, baristi che assistono in prima fila alla vita parlamentare - è la speranza di poter accendere un mutuo, comprarsi una macchina a rate, mandare i figli a fare sport, non dover sempre rincorrere bollette e pagamenti vari. Sta di fatto che tra i lavoratori la sola ipotesi di un cambiamento nella gestione ha riacceso la speranza che qualcosa possa veramente cambiare. La costituzione di una società in house - rivoluzione portata avanti con ostinazione dal Questore anziano della Camera, Paolo Trancassini (FdI) - prevede inizialmente un miglioramento salariale del 5%. Soldi che saltano fuori dal taglio degli utili che oggi invece finiscono per saldare il servizio di intermediazione offerto. 

La ServCo (questo il nome ipotizzato per la società interna di gestione), non deve produrre utili. I risparmi stimati da tutta questa riorganizzazione verrebbero dirottati per migliorare i livelli salariali, dare vita ad un fondo di garanzia per tamponare eventuali incognite societarie (400mila euro), e assicurare l’ottimizzazione dei costi riducendo gli sprechi e le spese inutili che oggi pesano sulle uscite messe a bilancio. L’unico vincolo è garantire la riconferma degli attuali addetti. Sorprende a questo punto il fuoco di sbarramento messo in atto da Pd, M5s, e pure dalla Cgil. La proposta di costituire una società interna viene derubricata come il tentativo di mettere le mani nel piatto delle società di appalto. Peccato che sia vero esattamente il contrario. «Se esce il mio nome questi mi mettono a fare i turni peggiori», implora la signora Gina, «però non si può vivere così. Sono anni che lavoro a Montecitorio. Una volta pulisco, un’altra mi mettono al guardaroba, un’altra ancora all’assistenza. Ho pochi contributi, guadagno una miseria e non posso permettermi neppure di rinunciare a questi 500 euro ballerini che la cooperativa mi fa la grazia di versarmi ogni mese. Hanno organizzato tutto per fare in modo che il mio monte ore non superi il part time orizzontale. Loro risparmiano perché sono donna, in età matura e prima risultavo disoccupata. Io intanto faccio i salti mortali per campare...».

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