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Romano Prodi, se perfino lui elogia il piano per l'Africa del governo Meloni

 Romano Prodi

Francesco Damato
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A Mario Draghi non riuscì molto bene la disponibilità offerta alla fine del 2021 ai partiti che ne componevano il governo e la maggioranza a fare “il nonno” degli italiani, oltre che il loro momentaneo presidente del Consiglio. Tutti vi videro, a torto o ragione, la voglia di succedere al Quirinale a Sergio Mattarella. Che stava concludendo il suo mandato rifiutando pubblicamente, tra piazze e teatri, tutte le sollecitazioni a farsi rieleggere. Si scatenò una gara fra quanti, o aspirandovi in proprio o non volendo saperne di lui addirittura come capo dello Stato, dopo averlo subìto a Palazzo Chigi, si misero a disseminare di trappole la reale o immaginaria corsa di Draghi al Quirinale: da Silvio Berlusconi a Giuseppe Conte. Finì con la conferma di Mattarella, dopo la solita processione reverenziale al Quirinale, come già accaduto con Giorgio Napolitano. E seguì l’indebolimento di Draghi al governo. Che imboccò la discesa verso le elezioni anticipate fortunatamente risolutrici di una crisi della quale avevano perso i fili anche quelli che l’avevano programmata.

LA SVEGLIA CHE SUONA
A Romano Prodi è riuscito un po’ meglio, almeno sinora, il no alla funzione di “padre” del Pd, attribuitagli generosamente sul Corriere della Sera da Antonio Polito, a vantaggio del “nonno”. Così egli ha preferito sentirsi e chiamarsi, sempre intervistato sul Corriere, in un’intervista di martedì scorso. Un nonno «che può somministrare affetto, non influenza e comando», ha precisato il Professore, non so francamente se più deluso o preoccupato dal mancato ascolto dei suoi consigli da parte della segretaria Elly Schlein. Come quello di non lasciarsi tentare dal candidarsi per finta alle elezioni Europee. O di avere meno riguardi, diciamo così, per Giuseppe Conte, “che non ha ancora deciso con chi stare davvero”, ha avvertito lo stesso Prodi. Che d’altronde aveva sì aupicato di recente che Elly potesse “federare” alcuni oppositori purché costoro fossero stati d’accordo.

 

 

L’unico obiettivo elettorale di Conte avvertibile chiaramente è sorpassare il Pd per assumere con la forza, visto che non ci riesce con l’astuzia, la guida dell’opposizione. Che equivarrebbe ad un’opa sul Pd simile a quella tentata da Beppe Grillo nel lontano 2009, iscrivendosi d’estate ad una sezione di Arzachena per scalare la segreteria nazionale appena lasciata, a sorpresa, da Walter Veltroni. Respinto in partenza dopo ordine giunto da Roma, il comico corse in piazza a Bologna a prenotare il suo partito personale e lanciarlo nello spazio, farcito di parolacce e di stelle.


In pochi giorni dalla sua intervista al Corriere, Prodi ha visto la sua Schlein - “sua” perché emersa politicamente nel 2013 come aspirante vendicatrice della mancata elezione del Professore al Quirinale- finalmente accorgersi delle troppe ambiguità di Conte. E contestargli pubblicamente la lotta che preferisce fare più al Pd che al centrodestra. Ma, soprattutto, Prodi ha voluto clamorosamente contraddire la versione quanto meno minimalistica data dal Pd alla Conferenza ItaliAfrica voluta a Roma dal governo. Egli ne ha riconosciuto la sostanziale continuità con la politica verso quel continente perseguita dall’Italia fra prima e seconda Repubblica. Una politica su cui Meloni, decisa a non fare più dell’Africa solo o prevalemtemente un continente di esportazione di migranti, ha avuto l’astuzia di appendere come un quadro il famoso “piano Mattei”, dal nome del fondatore e a lungo presidente dell’Eni: uomo della sinistra democristiana che fece vedere i sorci verdi a tutti quelli che l’Africa volevano solo sfruttarla, come altre terre ricche di fonti energetiche. Un uomo ancora, Mattei, protagonista di una lotta partigiana la cui storia non mi risulta abbia creato alla Meloni la paura, la repulsione, il fastidio e quant’altro le viene attribuito dagli avversari un giorno si e l’altro pure quando si parla del passato e lo si proietta sul presente e sull’avvenire.


«La scelta di guardare all’Africa non è solo giusta, ma anche necessaria», ha premesso Prodi, Certo, serve «un progetto più ampio portato avanti dall’Europa intera», perché «da sola l’Italia può fare ben poco per fronteggiare la forte penetrazione sistemica, in Africa, della Cina in campo economico e della Russia in campo politico, non so quanto in accordo fra loro». Ma l’Europa non era certo assente alla Conferenza voluta dalla Meloni e svoltasi al Senato. L’Ue c’era con i vertici, a cominciare dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen. La cui “attenzione” per l’Italia guadagnatasi dalla Meloni - ha detto Prodi dando un’altra botta al Pd - «è straordinariamente intensa e profonda», tanto che «la premier sta diventando una sorta di polizza di assicurazione per von der Leyen in caso di incidente elettorale» a giugno. $ avvertibile in tutte queste parole e ragionamenti, passati un po’ inosservati nei giorni scorsi, un filo di continuità non solo fra il Prodi di Palazzo Chigi e di Bruxelles e la Meloni ma anche fra questa e tutta ripeto - la politica sempre condotta dall’Italia repubblicana verso l’Africa: oltre a Mattei, Alcide De Gasperi, Aldo Moro, Giulio Andreotti e il socialista Bettino Craxi.

IL DITO E LA LUNA
Non è d’altronde solo per un capriccio elettorale che il partito della Meloni ha assunto quelle dimensioni della Dc che furono per un po’, nella cosiddetta seconda Repubblica, di Forza Italia. E che il Pd della Schlein può ormai vedere solo nella cartolina di Trieste di cadorniana memoria. Ma molti anziché vedere questa specie di luna preferiscono fermarsi al dito puntato contro di essa. Che è il dito delle polemiche sui saluti romani di via Acca Larentia e simili, o sul premierato anticamera di una nuova edizione del fascismo, col povero Mattarella trascinato in catene nei sotterranei del Quirinale, peggio di Ilaria Salis nella cella ungherese prima del sopralluogo del procuratore generale che l’ha fatta ripulire, credo, per le telecamere.

 

 

 

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