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Cei, ora i vescovi hanno fame di soldi

Fausto Carioti
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Monsignor Gian Carlo Perego, presidente della Commissione episcopale per le migrazioni, ha avuto un merito: attaccando l’accordo siglato da Giorgia Meloni col premier albanese Edi Rama, ha indicato il problema che in questo momento separa i vescovi italiani dal governo. Quella frase che mette il denaro al centro della diatriba («673 milioni di euro in fumo per l’incapacità di costruire un sistema di accoglienza diffusa del nostro Paese. Soldi buttati in mare») rivela più di quanto il suo autore volesse.

È lo «sterco del demonio», ancora più delle divergenze sul trattamento da riservare agli immigrati irregolari, a dividere infatti la Cei da un esecutivo che sinora le è stato tutt’altro che ostile. Al punto da resistere alla Ue, che da anni preme sui governi di Roma affinché riscuotano l’Ici non versata dalla Chiesa cattolica tra il 2006 e il 2011 (una cifra tra i 3,5 e gli 11 miliardi di euro, a seconda delle stime). Un governo che nella difesa della vita «dal concepimento alla morte naturale» si è mostrato in sintonia con l’insegnamento di papa Francesco. E che, nonostante questo e il buon rapporto personale tra Jorge Mario Bergoglio e Meloni, ogni giorno si vede piovere addosso le bordate del cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei, del suo vice Francesco Savino e di quasi tutti i vescovi. Contro le politiche dell’immigrazione, contro l’autonomia differenziata, bollata come «la secessione dei ricchi», e persino contro il premierato.

Nessuna traccia in pubblico, invece, dello scontro più duro, che si gioca lontano dai riflettori: quello per la ripartizione annuale dell’otto per mille del gettito Irpef. Una torta da 1,41 miliardi di euro della quale i vescovi, in privato, parlano eccome.

 

 

ANATOMIA DI UN CROLLO - La storia raccontata dai numeri è rivelatrice, anche perché fotografa un processo ormai consolidato. Nelle dichiarazioni dei redditi del 2014, sul totale delle scelte fatte dai contribuenti (che valgono anche per chi non dà indicazioni e decidono quindi la ripartizione dell’intero otto per mille), la quota della Chiesa cattolica era pari all’81,2%: oltre 14,4 milioni di italiani avevano firmato per devolvere la loro parte alle sue parrocchie e alle sue missioni. Quanto bastava per garantire nel 2018 (c’è uno scarto di quattro anni) un’entrata di poco superiore al miliardo di euro.

Mentre lo Stato italiano, col 14% delle scelte, pari a meno di 2,5 milioni di contribuenti, incamerava una cifra inferiore ai 176 milioni. L’anno dopo le scelte in favore della Chiesa sono scese al di sotto dell’80% e quelle per lo Stato hanno raggiunto il 14,6%. Da allora, la forbice non ha fatto altro che restringersi.

Nelle ultime tabelle del dipartimento delle Finanze, relative alle dichiarazioni dei redditi del 2021, le preferenze per la Chiesa sono scese per la prima volta sotto al 70%, mentre quelle per devolvere l’otto per mille allo Stato hanno toccato il 24,6%. Ad aver firmato per la Chiesa sono stati meno di 11,6 milioni di contribuenti: un crollo di quasi tre milioni rispetto a sette anni prima. Più di 4,1 milioni, invece, hanno optato per lo Stato: 1,6 milioni in più rispetto al 2014. I risultati sul conquibus ancora non sono noti, ma inevitabilmente rispecchieranno l’andamento delle scelte.

E questo nonostante la Chiesa, ogni anno, faccia campagne pubblicitarie importanti («Chiedilo a loro») per convincere i contribuenti a mettere la firma nel riquadro che la riguarda. A differenza dello Stato, che ha sempre evitato di spingersi sino a quel punto. Altro segno del trattamento di favore riservato dai governi ai vescovi, che più di una volta hanno fatto sapere che non avrebbero gradito spot e manifesti da parte del principale “concorrente”.

 

 

LE NUOVE REGOLE - Una conseguenza della grande secolarizzazione, di quello scemare del sentimento religioso che sta riducendo pure il numero dei matrimoni celebrati in chiesa? Anche, ma non solo. Il cambiamento delle regole ha contribuito. A partire dalle dichiarazioni dei redditi del 2020, infatti, i contribuenti possono scegliere non solo di dare i soldi allo Stato, ma anche la destinazione che ritengono migliore per la loro quota. Sinora sono state cinque: fame nel mondo, calamità, edilizia scolastica, assistenza ai rifugiati, beni culturali. Questa possibilità ha accelerato il travaso di firme dal riquadro della Chiesa a quello dello Stato: i contribuenti, sapendo che i loro soldi andranno in una direzione ben definita anziché perdersi nel mare magnum della contabilità pubblica, premiano più volentieri l’amministrazione statale. E a quelle cinque voci il governo, tramite il sottosegretario Alfredo Mantovano, ha fatto sapere che quest’anno ne aggiungerà una sesta, per il «recupero dalle tossicodipendenze e dalle altre dipendenze patologiche».

La Cei, insomma, ha ottimi motivi per preoccuparsi dell’otto per mille che fugge. E questo non deve scandalizzare: senza denaro non si costruiscono missioni, non si restaurano affreschi sacri e non si fanno opere pie. A mancare, semmai, è la chiarezza: se i vescovi vogliono che lo Stato esca dalla ripartizione dell’otto per mille, o che dai modelli per la dichiarazione dei redditi scompaia la possibilità di scegliere una destinazione specifica per i soldi dati allo Stato, o non vogliono che lo Stato, un domani, pubblicizzi ciò che di buono può fare con la propria quota, è il caso che lo dicano in pubblico e aprano un dibattito alla luce del sole. Attaccare il governo su ogni tema politico con un linguaggio che ricalca quello dell’opposizione, confidando di avere così più potere contrattuale, non rende giustizia alle loro buone cause. 

 

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