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Walter Veltroni racconta il linciaggio di un fascista: la lezione ai violenti di oggi

Pietro Senaldi
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Ci sarà una ragione se Walter Veltroni se ne esce oggi con la storia, nota ma raramente evocata, di un linciaggio avvenuto ottant’anni fa nella Roma appena denazificata. Il segretario dem che nel 2008, pur avendo come sfidante Silvio Berlusconi, colui che buona parte della sinistra politico-mediatico-giudiziaria aveva da anni già identificato con il male assoluto, decise di impostare la campagna elettorale sulla vocazione maggioritaria del partito anziché su una crociata contro il demonio, parla nel suo ultimo libro di uno ieri che non sa insegnare all’oggi. Vinciamo perché abbiamo qualcosa di meglio da fare per gli altri e riusciamo a dirlo e non perché il rivale è fascista, rozzo, ladro e noi riusciamo a descriverlo ancora peggio: questo era il suo credo e testamento politico. Poi non vinse, ma comunque raccolse un numero di voti (11 milioni) per il quale ciascuno dei suoi successori si sarebbe venduto l’anima al diavolo, altro che al Cavaliere.

La condanna (Rizzoli, 18,5 euro; 224 pagine) è la vicenda tragica di Donato Carretta, direttore del carcere di Regina Coeli, da dove sei mesi prima dei fatti era stata prelevata la maggior parte dei martiri delle Fosse Ardeatine. Si trova in tribunale come testimone d’accusa contro il questore Pietro Caruso, che aiutò Kappler a compilare le liste, una condanna a morte annunciata. La folla preme assetata di vendetta, tanto che l’udienza viene rimandata per questioni d’ordine pubblico. Due donne- sì, due donne - individuano Carretta come qualcuno che in qualche modo c’entra qualcosa con i crimini nazisti. La gente ha la preda sostitutiva.

 

 

Il direttore, fascista della prima ora e mezzo antifascista dell’ultima, al punto da aver agevolato la fuga dal proprio carcere dei detenuti politici Saragat e Pertini, futuri presidenti della Repubblica, viene massacrato. Un carabiniere prova ad aiutarlo, ma non riesce a caricarlo in tempo sull’auto della salvezza perché il conducente sgomma via troppo in fretta per la paura. Carretta viene deposto esanime sui binari del tram, per essere investito e spappolato ma il tranviere si rifiuta e scende dal mezzo portandosi via la maniglia di guida. La folla allora se la prende con lui, che evita la morte solo esibendo la tessera del Partito Comunista.

Ma il destino del direttore, sotto forma dei suoi consimili, non ha pietà. L’uomo viene buttato moribondo nel Tevere, si rianima, prova a nuotare e, quando pensa di potercela fare, viene raggiunto dalle barche di chi prendeva il sole ed era stato incitato dai ponti a finirlo. Morirà colpito dai remi di persone che non sapevano neppure chi fosse e perché uccidevano. A riprova che non è stato un delitto politico ma solo uno sfogo belluino dopo anni di cattività, anche se L’Unità non capisce niente e il giorno dopo parlerà di «un potente avvertimento che la popolazione di Roma ha dato a tutti, in forme che non vogliamo giudicare».

 

 

Benzina sul fuoco e tutti assolti, tutto nel dimenticatoio. La finzione scenica per tornare sulla vicenda è la storia del giovane giornalista precario, nel lavoro e nella vita, Giovanni, alter ego dell’autore, che cerca di farsi largo nel mondo spento di una redazione datata dove si lavora con il pilota automatico. Un caporedattore ritrova nel ragazzo il senso della professione, gli commissiona un’inchiesta sull’antico fatto e lo aiuta passo dopo passo nella ricerca della verità.

Il libro è anche una coccola al giornalismo, che Veltroni ha praticato parallelamente alla politica, e un richiamo alla sua funzione civica e di riflessione sulla società. Il singolo cronista che indaga l’uomo - chi era davvero Carretta, perché è finito così ed e è possibile che una vicenda simile riaccada, ma soprattutto quando? - divorato da una massa con la bava alla bocca. È un popolo che ricorda tanto i leoni da tastiera dei social, specie quando il cadavere viene appeso per i piedi, tra il pianto senza speranza della moglie e le risate quasi inconsapevoli degli assassini. È partito da lì, il ritorno all’abisso? L’auspicio dell’autore è che, nelle redazioni, tanti giovani Giovanni ce ne tirino comunque fuori. Non è un delitto politico, ma la scelta di un fascista rabbonito come vittima sacrificale e il disvelamento dell’ipocrisia complice del mondo intellettuale, raccontato nel Luchino Visconti che riprende tutto ma non divulga nulla per non alienarsi le simpatie del popolo, futuro pubblico pagante, sembrano la continuazione del “ma anche veltroniano”; più che un elogio del diverso che si include per dovere, un inno alla libertà, che accetta per amore di se stessa e per curiosità. 

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