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Sugar tax? Lo stato "diet-etico" che impone tasse per educare i cittadini

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Corrado Ocone
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 La Corte Costituzionale ha “promosso” la cosiddetta “sugar tax”, cioè la tassa sui prodotti contenenti zuccheri, altri dolcificanti o edulcoranti, che, prorogata di anno in anno, dovrebbe ora entrare in vigore il prossimo primo luglio. Secondo i giudici, la legge che la introduce non è incostituzionale in quanto non crea affatto una discriminazione fra bevande omogenee. È infatti dovere dello Stato, sempre secondo la suprema Corte, disncentivare l’uso di prodotti ritenuti dannosi per la salute, il cui eccessivo utilizzo possa «generare un aggravio di spesa pubblica, connesso alla conseguente necessità di assicurare appropriate cure attraverso il Servizio sanitario nazionale». 

La pronuncia, ovviamente fatta dalla Corte in punto di diritto, desta non pochi problemi. Essi vanno esplicitati perché ci fanno capire come la tanto sbandierata “evoluzione del diritto” non possa essere considerata un progresso a prescindere, e sicuramente non lo è da un punto di vista liberale. Qui si potrebbe discettare a lungo sull’aumento esponenziale della tassazione, che ormai non si ferma nemmeno davanti ai beni di largo consumo, e che ripudia per principio ad una sensibilità liberale quando raggiunge i livelli che ormai ha raggiunto nel nostro Paese. Si potrebbe anche ragionare sulla correlazione fra l’uso di bevande alcoliche e l’aumento della spesa sanitaria, la quale non è scientificamente accertata come si tende a credere (paradossalmente la spesa potrebbe anche aumentare per curare lo stress di consumatori colpiti in un consumo che era divenuto per loro abitudinario).

 

Il tema su cui si vuole però far riflettere è soprattutto un altro, concernente il ruolo che si assegna allo Stato nelle nostre società: da semplice regolatore della vita civile si è passati infatti all’idea di uno Stato che deve farsi promotore del benessere sociale, fino ad ammettere infine che esso, novello Leviatano, possa addirittura intromettersi nelle nostre vite sindacando sugli stili di vita e dirigendo i comportamenti individuali. Con le leggi, come nel caso della “sugar tax”, ma anche con alcune sofisticate tecniche di persuasione tipo il cosiddetto nudge o “spinta gentile”, oppure attraverso i meccanismi premiali per chi si comporta da “buon cittadino” (e chi lo stabilisce?). Tecniche queste ultime non a caso già in vigore in Stati totalitari come la Cina, ma che ogni tanto fanno capolino, senza destare soverchie preoccupazioni, anche nelle nostre democrazie (si pensi solo un attimo a come è stata gestita la recente pandemia).

In sostanza, interventi di questo tipo denotano una concezione eticista, pedagogica e paternalistica dello Stato e del potere che non può essere accettata da un liberale. In un sistema politico improntato dal liberalismo non può essere infatti un’entità politica superiore all’individuo a dirci cosa è giusto bere o mangiare, e in che misura. Tanto meno se la giustificazione è che ciò viene fatto per il nostro bene. A parte che ciò che sia il nostro bene, o anche il bene generale di una società, è sempre controverso, il problema è ancora più sostanziale. In un’ottica liberale lo Stato nasce infatti per garantirci il diritto, senza far male agli altri, di disporre delle nostre vite come meglio crediamo. E quindi anche per permetterci di sbagliare, perché è solo sbagliando, casomai pentendoci poi delle scelte fatte, nella dieta e in mille altre cose, che cresciamo come individui e diventiamo veri cittadini (e non sudditi). Proprio perché siamo esseri in grado di correggerci da soli, noi apprendiamo dall’esperienza e solo attraverso essa possiamo raggiungere un accettabile equilibrio individuale e sociale. Una “verità” imposta, diceva Luigi Einaudi, vale men che nulla e su di essa non si può costruire nulla di duraturo.


Che poi lo Stato etico si ripresenti oggi in una versione diet-etica o salutista, è certo un po’ ridicolo ma non per questo è meno indicativo delle tendenze di fondo della nostra società. Chi si rende più conto che la libertà è indivisibile, per dirla sempre con i Padri del liberalismo, e che, se rinunciamo ad essa solo un po’, finiamo per disabituarci completamente al suo uso? Si dice che le leggi debbano riflettere l’evoluzione della società. Ammettiamolo pure, con riserva. A maggior ragione urge allora una severa autocritica. Forse la colpa è anche un po’ nostra, voglio dire, che non difendiamo fino in fondo la cultura della libertà, prima di tutto educando i giovani ad essa.

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