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Luigi Di Maio ed Enrico Letta, marziani in Europa

Giovanni Sallusti
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Ci sono due tipini che avendo collezionato fallimenti politici in serie sono stati adeguatamente premiati con incarichi all’altezza del loro insuccesso. Il primo fa il Rappresentante Speciale dell’Unione Europea per il Golfo Persico, diciamo non un’area secondaria nell’incendio geopolitico contemporaneo. Il secondo fa il presidente dell’Istituto Jacques Delors e viene inspiegabilmente interpellato dal Consiglio europeo sulla qualsiasi.

Il primo è Luigi Di Maio, ed è passato negli anni da Grillo a Tabacci. Il secondo è Enrico Letta, ed è passato negli anni dall’Istituto Sciences-Po al Delors, con in mezzo comparsata tristanzuola a Palazzo Chigi. Giggino, mentre l’area del mondo di cui avrebbe il mandato di occuparsi rischia di collassare definitivamente, ieri ha trovato il tempo di presentarsi ciarliero e impettito negli studi de L’aria che tira. Dove ha sciorinato un’analisi più barcollante del fu progetto di Impegno Civico.

 

 

 

«Gli Stati membri dell’Ue sono stati chiari nel condannare l’attacco iraniano completamente sproporzionato». In che senso «sproporzionato», illustre rappresentante specialissimo? Forse anche lei aderisce alla vulgata filopasdaran, per cui la pioggia di missili e droni contro lo Stato ebraico rappresenterebbe una reazione al bombardamento di Damasco? Forse anche lei dimentica che quest’ultimo si colloca tra le reazioni al 7 ottobre, ovvero al pogrom realizzato da un membro della rete terrorista mediorientale eterodiretta da Teheran, gli sgozzatori di Hamas? Finale in crescendo surrealista: «Il fatto che tutti insieme abbiamo difeso Israele quella notte ci permette di avere la credibilità per rivolgere un appello alla moderazione rispetto alla risposta». Ehm no, esimio rappresentante: «quella notte» Israele è stato difeso, oltre che dalla propria superiorità tecnologica, dai caccia americani, britannici, francesi. Non «da tutti», certamente non da molti di quelli che oggi si spendono in inviti accorati alla calma, certamente non da una qualche sua azione palpabile. Ammesso esista, una qualche sua azione palpabile in questi dodici mesi da inviato Ue, per inciso ma non troppo pagato con i soldi dei contribuenti europei.

Enrico Letta invece va sul sicuro, e anticipa tramite un’amicale intervista al Financial Times il contenuto del rapporto sullo stato del mercato unico che presenterà giovedì al Consiglio europeo. Il mantra è un classico della casa: «Il problema è che in questo nuovo mondo siamo troppo piccoli e se non ci integriamo, decadremo». Ma il punto davvero inquietante è la prima «priorità» individuata dall’ex premier: «Rendere più verde la nostra economia». Infatti, «se non riusciremo a dare una risposta alla domanda su come finanziare la transizione green, sarà molto, molto complicato evitare una reazione sociale e politica».

 

 

 

Dal che si deduce che la percezione all’interno dell’Istituto Delors è il contrario della realtà diffusa nel continente, dove la «reazione sociale e politica» si accenderà esattamente se lorsignori andranno in fondo col dirigismo gretino. E qui i «suggerimenti» di Letta ai papaveri europei fanno gelare il sangue. Poiché le risorse necessarie per il mitologico Green New Deal sono stimate in 500 miliardi di euro l’anno, «sarebbe molto complicato trovare una soluzione basata solo sul denaro pubblico». Ergo: «Se non troviamo il modo di utilizzare il denaro privato, questi bisogni non saranno coperti».

Tradotto: Letta consiglia caldamente una nuova gragnuola di tasse in nome del feticcio delle emissioni zero, che significa portafogli sotto zero. Poiché c’è il serio rischio che lo ascoltino, sarebbe molto più utile alla sopravvivenza dell’economia continentale che Enrico si recasse una buona volta ai giardinetti. Magari sulla panchina di fianco a quella del (non) inviato Giggino. Una volta lì, i due trombati illustri potranno tromboneggiare all’infinito, mentre di geopolitica e sviluppo si occuperà gente del mestiere. 

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