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Europee, Elly Schlein comunque vada ha già perso il Pd

Pietro Senaldi
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Un leader traina, un dirigente spinge. Elly Schlein non è né l’uno né l’altro. Ha provato a candidarsi capolista in tutte le circoscrizioni e il partito l’ha fatta desistere, spiegandole che, tra l’altro, avrebbe danneggiato le altre donne. Ha tentato allora di inserire il proprio nome nel simbolo del Pd sulle liste elettorali delle prossime Europee, malgrado il padre nobile della sinistra, Romano Prodi, insistesse nel dire che non si sarebbe dovuta neppure presentare, e ha scatenato la rivoluzione.

È riuscita a mettere d’accordo contro di lei Romano Prodi e Giuseppe Provenzano, Paola De Micheli e Roberto Speranza, Debora Serracchiani e Andrea Orlando, Gianni Cuperlo e Alessia Morani, Piero Fassino e Graziano Delrio. Perfino Lucia Annunziata, da lei imposta come capolista al Sud, l’ha sconfessata. Ha mandato fuori di testa pure Dario Franceschini, uno dei suoi massimi sponsor, comunicandogli le proprie intenzioni al telefono, pochi minuti prima di ufficializzarla a tutti. Solo il cacicco Vincenzo De Luca l’ha difesa, ma unicamente perché lei gli ha fatto il favore di candidargli il pupillo Lello Topo, ras delle preferenze in Campania.

 

 


 

 

UN ANNO DOPO

«Non ci hanno visti arrivare», sorrise soddisfatta un anno fa la guida del movimento Occupy Pd, subito dopo aver sconfitto alle primarie il suo presidente regionale, Stefano Bonaccini. «Non sa dove è arrivata», aprono le braccia i vertici dei dem mentre la vedono sparire e già bisticciano su come e con chi sostituirla. Questa volta il solito vizio del Partito Democratico di far fuori dopo poco più di un anno il segretario c’entra poco perché «Elly si è eliminata da sola» sussurrano al Nazareno. Uno che pensa di inserire il proprio nome nel simbolo senza dire niente a nessuno, senza porre il tema pubblicamente e aprire il dibattito, come si dice da quelle parti, significa che non ha capito nulla del partito che è stato chiamato a guidare. Non aveva osato tanto neppure Matteo Renzi, che pure aveva qualche quintale in più di personalità, doti carismatiche e visione politica rispetto alla Schlein. L’aveva fatto Walter Veltroni, nel 2008, ma erano Politiche, si trattava di una candidatura a Palazzo Chigi, c’era appena stata la fusione Ds-Margherita e lui era stato costretto dagli altri a presentarsi, per farlo fuori come poi accaduto l’anno dopo, e allora ottenne almeno di giocarsela a modo suo.

 

 

 

Dalla foto di Enrico Berlinguer sulla tessera del 2024 al nome di Elly nel simbolo, quarant’anni di storia del più grande partito della sinistra italiana cancellati con un’operazione di marketing. Questo è stata la Schlein, un lifting ben riuscito, una Mattia Santori un filo più presentabile, l’evoluzione delle sardine bolognesi in baccalà romani.

 

MINESTRONE DEM

Elly ha presentato delle candidature che sono un minestrone. L’amerikana e filo-israeliana Annunziata al Sud e il pacifista non amico dell’Ucraina Marco Tarquinio al Centro, il progressista fu renziano Antonio Decaro a Bari e l'avanzo di centro sociale Cecilia Strada a Milano, l’ultra-ecologista Annalisa Corrado a Nord Est e l’ex dirigente berlusconiano, sindaco del termovalorizzatore, Giorgio Gori a Nord Ovest. Più che delle liste, il cast dell’Isola dei Famosi, ebbe a polemizzare inascoltata già settimane fa l’europarlamentare uscente Pina Picierno, una che di voti ne aveva presi e a Bruxelles ha lavorato; e oggi, perfino quelli che erano saliti gioiosi sul carro di Elly, perché donna, perché nuova, perché icona del mondo lgbt, la rimproverano di essere solo chiacchiere e distintivo, di non aver dato né una linea né un contenuto politico al partito.

 

 

 

C’è una maledizione che pare aver colpito il Pd e non volersene andare più: ogni volta i dem affidano le chiavi della ditta a qualcuno e poi non gli consentono mai di girarle nella toppa. Il segretario è il portinaio e non il proprietario, custodisce il corpo agonizzante senza poter cercare di rianimarlo. Queste Europee dovevano celebrare la Schlein come l’anti-Meloni, in un duello televisivo che probabilmente non si farà mai. Rischiano invece di essere il suo capolinea. La segretaria si deve confrontare con il 19% di Enrico Letta alle Politiche del 2022, che ne determinarono le dimissioni.

Non basta fare un risultato di un’unghia superiore. Bisognerà vedere se aumenterà il distacco con Fratelli d’Italia, che finì sei punti sopra, e si ridurrà quello con M5s, che si fermò al 15,5. È dura, perché la signora ha deciso di sterzare ancora più sul rosso profondo, ma lì le fanno una concorrenza spietata i Verdi di Bonelli e la sinistra di Fratoianni. Sulla giustizia e i temi sociali invece ci pensa Conte a restringerle il campo. Quanto all’elettorato moderato, quello può scegliere tra Renzi, Calenda e Bonino, in attesta che il Pd passi a Paolo Gentiloni o a chi per lui.

 

PECCATO D’IGNORANZA

I conti si inizieranno a fare dopo il voto, ma già oggi Elly è in minoranza nel suo partito molto di più oggi rispetto a quando si impose alle primarie contro la struttura dem, che le avrebbe preferito Bonaccini. Lei è consapevole di giocarsi tutto; la scelta di mettere il nome nel simbolo è stata peccato di ignoranza ma non d’arroganza. È stato un segno di debolezza, qualcuno l’aveva convinta che scrivere Schlein sulla lista avrebbe garantito un 2% in più al Partito Democratico; non si sa se i suoi gliel’hanno impedito perché il ragionamento era giusto o perché, come sostengono in molti, era invece sbagliato; in ogni caso, non era dem e non andava fatto.

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