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Giuseppe Conte, le ore da incubo: da leader a frustrato del M5s

Giuseppe Conte

Francesco Specchia
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Due. Sono due gli elementi che consentono al Movimento Cinque Stelle di essere ancora vivo anche se tecnicamente dovrebbe essere morto da un pezzo: la straordinaria propensione di Giuseppe Conte a «ragionare da sughero» (cfr. Maurizio Gasparri) e la memoria da criceto dell’italiano medio sulla propensione di Conte a ragionare da sughero. Come nel paradosso fisico del calabrone che vola ma non dovrebbe essere in grado di farlo, è dalle Politiche del ’22, che, di Conte, commentatori, libera stampa e politologi continuano a disegnare la «parabola discendente». Eppure Conte, pur in mezzo ai cadaveri di 2/3 del suo elettorato, era sempre lì, a deviare i ferrei principi a seconda della convenienza, e a sopravvivere razzolando tra i voti perduti. Ma oggi sembra la volta buona. Oggi, in un post-elezioni che vede il M5S ridotto ad un miserrimo 10% e fagocitato da Elly Schlein (addirittura a Bari il 67% degli elettori è passato al Pd) l’incoerenza di Conte registra una botta d’arresto.

ATTACCO DI CASALEGGIO
Il fatto stesso che sia stato Davide Casaleggio figlio del fondatore pentastellato Gianroberto a commentare «quello del M5S alle europee è un risultato disastroso. Servirà una decisione importante. Conte dovrebbe dimettersi»; be’, rende l’idea dello sprofondo. Sin da quando, semplice docente di diritto a Firenze sconosciuto ai più con un curriculum un po’ –diciamo- “arricchito”, si ritrovò issato al soglio di Palazzo Chigi, Conte ha reso il suo trasformismo alla Depretis o alla Leonard Zelig un’arma impropria. Da federalista convinto con Salvini, europeista con Draghi e supremo inviatore d’armi e annunciatore dell’aumento delle spese militari al 2% del Pil con Trump, Conte premier per caso si ritrovò all’opposizione. E quindi lì si adattò all’ambiente, e si trasformò subito in: antileghista acerrimo «Io la maggioranza la volevo fare col Pd, mica con la Lega», iperstatalista con dubbi sull’Europa ma meno su Putin, pacifista ad oltranza che Santoro al confronto sembra il maresciallo Montgomery. La politica di Conte è la storia di una continua, inesausta sequela di colpi di lombi e cambi d’opinione, e di cambi di opinione sui cambi d’opinione. Il Tap, e la Tav, e il Ponte di Messina, e la lottizzazione Rai (i 5 Stelle nella loro purezza, ottennero direttori, conduttori e l’ad), e i “decreti sicurezza” prima fighissimi poi barbari, e il bonus 110%, e Draghi «l’ho sempre sostenuto» e Draghi «l’ho fatto cadere io», e l’afflato democristiano e «sono sempre stato uomo di sinistra». Se gli italiani non avessero, appunto, la memoria di un roditore in letargo il M5S avrebbe, perlomeno, cambiato leader. Solo che, come nella grande morìa delle vacche di Totò, di nuovi leader M5S all’orizzonte non se ne vedono.

 


CAMPO LARGHISSIMO
Poi è arrivato il “campo largo”: Conte l’ha caldeggiato finché, appunto, la sua Todde vinceva in Sardegna. Per poi smontarlo pezzo per pezzo nelle elezioni abruzzesi, lucane e, infine, Europee. «Io più che per il campo largo sono per il campo giusto», diceva l’avvocato del popolo, cercando di rendersi leader di un centrosinistra impossibile la cui leadership, però, sia la Meloni che gli elettori avevano riconosciuto soltanto nella Schlein. Certo, a Conte l’Italia deve l’attenta vigilanza durante il Covid, e soprattutto l’intervento in sede di erogazione dei fondi del Pnnr. Anche se Paolo Gentiloni rivelò che più che all’allora Presidente del Consiglio il Piano di Ripresa e Resilienza si doveva al consiglio di un algoritmo.


Umile e modesto soltanto all’apparenza, affabulante nei comizi (il mantra «vi rifarete la casa gra-tui-ta-mente» era ipnotica), strategico grazie ai consigli di Rocco Casalino, Conte fu la nostra meteora apparsa nei cieli internazionali tra due G7 , quello di Charlevoix, nel Quebec, l’8 e 9 giugno 2018, quando si presentò ai Grandi del Mondo; e quello di Biarritz, in Francia, dal 24 al 26 agosto 2019, nei giorni del commiato. C’è una foto che testimonia quel passaggio. Johnson e la Merkel in primo piano, Macron in secondo e Conte in fondo a destra, piccino, appena riconoscibile perché tagliato a metà nell’inquadratura. Anche allora si parlò di «parabola». Uscì addirittura un libro su di lui La parabola del consenso di Pietro Venturini. Eppure. Eppure Giuseppi dalla resilienza invincibile è ancora qui, sughero o calabrone poco importa...

 

 

 

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