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Repubblica disprezza gli elettori di Centrodestra: "Sono il peggio dell'Italia"

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Giovanni Sallusti
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Eppure, qualcuno deve pur averlo letto mentre andava in pagina, l’editoriale di ieri su Repubblica a firma Carlo Bonini. Il redattore incaricato di “passarlo”, i vertici del giornale che fanno la prima pagina, un correttore di bozze. Chiunque lo abbia fatto, non deve voler troppo bene a Bonini, perché non l’ha fermato, non gli ha detto così è troppo, il sangue di Satnam Singh sulle mani di Giorgia Meloni e del centrodestra va oltre anche il giornalismo più legittimamente partigiano, è propaganda belluina, per non dire di peggio. Oppure, più probabilmente, a Repubblica ormai tutti condividono questo manicheismo apocalittico, questa convinzione patologica che il bipolarismo italiano sia ultimativo, Bene/Male, e che la redazione di largo Fochetti sia l’avanguardia del primo.


Non si spiega altrimenti il ragionamento (ma è un eufemismo, bisognerebbe dire il pestaggio ideologico) svolto da Bonini. Inizio tautologico: ha ragione Meloni quando dice che quella del datore di lavoro, o meglio di schiavitù, del povero bracciante indiano è «l’Italia peggiore». Intermezzo con domanda fintamente cronachistica: «E tuttavia, di quale Italia parla Giorgia Meloni? E a quale Italia parla?». Risposta allucinata, che va ben oltre la criminalizzazione dell’avversario, passa direttamente alla dannazione della persona: «Diciamolo usando altrettanta franchezza: parla della sua Italia». Focalizziamo bene le parole, perché chi per professione maneggia il linguaggio non può sottrarsi alla sua responsabilità intrinseca, quella di descrivere una realtà: l’Italia di chi non chiama i soccorsi, scaraventa il braccio tranciato di un proprio lavoratore nella raccolta indifferenziata e lo scarica agonizzante davanti a casa, è l’Italia di Giorgia Meloni, è l’Italia del centrodestra, è l’Italia del partito e della coalizione più votata dagli italiani. È una diffamazione collettiva, un marchio d’infamia impresso su una comunità, un elettorato, una sensibilità diffusa, la più diffusa.

Di cui Bonini imbastisce una caricatura criminogena che sulle colonne di Repubblica non si leggeva nemmeno ai tempi del berlusconismo. Quest’Italia, l’Italia peggiore che danza sul cadavere di Satnam, è quella cui Meloni «ha garantito impunità fiscale» (ma quando mai, ha lievemente abbassato uno dei carichi tributari più asfissianti d’Occidente, ma Bonini che ne sa, la sua crociata per il Bene la paga il gruppo Gedi). È «l’Italia delle piccole patrie e dei mille egoismi», che non si sa mai cosa vuol dire ma suona sempre bene, ed evoca pure l’alleato leghista. L’Italia «che non ne può più delle regole, dei controlli, magari anche di quelli rarefatti degli ispettori del lavoro». Sì, l’editorialista un tanto al chilo sta seriamente mischiando capolarato delinquenziale e rivoluzione liberale, tratta di schiavi e ordine spontaneo, e la conferma arriva nella strumentale citazione a ruota delle parole meloniane sull’Italia «che non va disturbata se vuole fare, disboscando la selva burocratica e amministrativa che penalizza». Se «vuole fare», Dio santo, immaginare, costruire, creare benessere per sé e per gli altri, propri dipendenti in primis (di nuovo, Bonini non lo sa, ma l’Italia delle piccole imprese è disseminata di “padroni”, per usare il suo linguaggio, che hanno come famiglia il capanonne e come ossessione lo stipendio dei propri famigliari, cioè i lavoratori).


Non se «vuole sfruttare persone commettendo reati, buttare i loro arti amputati e farle morire dissanguate». Anzi, questo scempio avviene proprio là dove non c’è civiltà liberale, là dove vige un paradossale feudalesimo ipermoderno infiltrato dalle mafie, là dove non esistono diritti individuali, solo braccia da ottimizzare, finché rimangono attaccate al corpo. Sono il liberalismo e la cultura d’impresa, ben più che stantii riti sindacali a orrore avvenuto, i fattori che possono evitare altri Satnam. Ma è perfino inutile ribadirlo, Bonini tira dritto col teorema, o meglio con l’insozzamento di una leadership e di una storia, per arrivare al finale più telefonato possibile. «La verità è che se davvero volesse onorare la memoria di Satnam Singh, Giorgia Meloni avrebbe una sola strada da percorrere». Eccola: «Tagliare il nodo gordiano che lega la sua avventura politica e le scelte del suo governo a quell’Italia che oggi proprio lei definisce “peggiore”. Ma l’impressione è che anche questo sia un passaggio impossibile. Un po’ come dirsi antifascisti». Il cerchio dell’«Italia peggiore» è chiuso: schiavista, criminale, fascista. Chiamandolo «clima da guerra civile», forse Meloni ha peccato di ottimismo.

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