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Maurizio Bianconi, la denuncia: "Cento contro uno, i compagni mi lanciarono dalla balconata"

Alessandro Gonzato
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«Pim-pum-pam: calci e pugni da tutte le parti. Più di cento contro uno: fu stimato che i comunisti che mi picchiarono erano in centodieci. Poi mi scaraventarono al piano di sotto. Rimasi tanto in ospedale: sono vivo per miracolo». Maurizio Bianconi aveva 25 anni quando finì vittima della furia rossa. «Ero un militante di destra, ad Arezzo, nel ’70. Ha presente? Di destra a quei tempi eravamo in cinque-sei in tutta la Toscana. Ci conoscevano tutti». Dirigente nazionale della Giovane Italia, l’associazione giovanile del Movimento Sociale Italiano, ha sempre avuto posizioni piuttosto laiche, e infatti per un periodo ha avuto in tasca anche la tessera del Partito Radicale, il che gli ha procurato più di un problema con l’Msi, soprattutto sul tema del divorzio. Bianconi lo appoggiava. Nel ’95 ha aderito ad Alleanza Nazionale ed è stato deputato dal 2008 al 2018, prima con il Popolo della Libertà, poi – dopo il Patto del Nazareno – è passato al Gruppo Misto. «Ho finito di fare l’avvocato pochi mesi fa. E dall’esperienza da penalista ho capito molto bene la mentalità dei compagni, più che in parlamento».

E come la pensano?
«Hanno insito il vittimismo: nella cultura di destra c’è il vantarsi di non prenderle, mentre a sinistra si vantano di averle prese. Da avvocato ovviamente mi è capitato di difendere un po’ tutti, da una parte e dall’altra. Ma difendere quelli di destra è sempre stato molto più difficile, a volte una faticaccia».

Perché?
«Perché rivendicavano di aver partecipato alla tal manifestazione, di aver detto e di aver fatto, anche più delle loro reali responsabilità. Quello di sinistra invece mi diceva: “Avvocato, io ero da un’altra parte”. A sinistra c’è l’elusione della responsabilità, e capisce che per un avvocato è molto più facile lavorare con chi ti dice che non ha fatto niente, non con uno che ti dice “Sì, io a quel corteo c’ero”».

 

 

 

Torniamo al pestaggio: cosa accadde? Ha detto cento contro uno...
«Allora ero consigliere comunale ad Arezzo, ma il fatto avvenne nella sede del Consiglio provinciale, dov’ero andato per sentire cosa diceva la sinistra sull’esplosione di una bomba amano a Catanzaro durante una manifestazione sindacale. Purtroppo morì un operaio, Giuseppe Malacaria. A sinistra dissero che erano stati i fascisti, ma l’indomani la polizia spiegò che la bomba era nella tasca della vittima, quindi non gliel’aveva lanciata nessuno».

E cosa c’entrava Catanzaro con Arezzo?
«A quei tempi non c’erano le televisioni private, i telefonini, i siti, la tecnologia di oggi: se volevi far politica seriamente ti dovevi informare in questo modo, sul campo, andando ad ascoltare anche le assemblee degli avversari».

Come nacque la scazzottata?
«Feci tre passi dentro il Consiglio, su in galleria, tra il pubblico, e cominciarono a picchiarmi, sento ancora il rumore dei pugni. Mi maciullarono».

La stavano aspettando?
«Penso di sì. Mi buttarono giù dalla galleria di una sala, nell’emiciclo, un volo di tre-quattro metri. La sinistra si era portata la claque. Ho avuto grossi problemi alla spina dorsale che oggi, alla mia veneranda età di 78 anni, mi dà ancora parecchia noia».

Poteva andarle anche peggio...
«Mela cavai solo perché indossavo un giubbotto scamosciato col pelo bianco dentro, li facevano in Spagna, e mia mamma che c’era stata me ne aveva regalato uno. La testa mi finì sotto le panche, un male tremendo. Il busto venne riparato dal materiale di questa giacca. Mamma poi l’ha conservata. Devo dire che se non ci sono rimasto secco è stato merito anche dei consiglieri provinciali che vedendosi piombare addosso questo coso allungarono le braccia d’istinto per prendermi: qualcuno si ruppe il polso, e per questo motivo il pubblico ministero, che era un militante di sinistra, aprì un procedimento per rissa. Capisce: rissa. Ma per esserci una rissa devono esserci almeno due gruppi contrapposti: io sono stato pestato senza aver mosso un dito e scaraventato giù dalla balconata».

Com’è finito il processo?
«È terminato dopo una decina d’anni. Condannarono qualcuno per qualcosa, ma niente di che».

Qualcuno andò in galera?
«No, macché».

Le condanne furono per rissa?
«No, no! Il fascicolo per rissa venne archiviato dopo pochi mesi. Il capo d’imputazione mi pare che diventò “lesioni”».

Lei è fascista?
«Voglio la libertà di non essere anti-fascista e di non essere fascista. L’antifascismo è uno dei mali d’Italia».

Verrà attaccato, lo sa...
«Se il fascismo è stato un male, l’antifascismo è stato peggio, perché quando uno si dichiara tale può fare di tutto, c’è una sorta di mistica. L’antifascismo è una specie di santino che viene appiccicato a ogni puttanata che viene fuori».

Quando oggi sente parlare di queste due categorie cosa pensa?
«Cambio canale. Il fascismo è un alibi, lo diceva pure Pasolini: “Non cercate i fascisti che non ci sono più, cercate di combattere i fascisti che stanno arrivando, quelli del capitale”. Ci voleva poco per capirlo: bastava essere intellettualmente onesti. Io sono contro tutti i totalitarismi. Aggiungo una cosa...».

Dica.
«Quand’ero in parlamento e Fiano del Pd voleva fare la legge per punire il saluto romano io pensavo: “Ma i miei colleghi non hanno capito che è una legge che fa comodo agli stessi partiti di destra che così si possono liberare di tutti gli imbecilli che continuano ad alzare il braccio?”».

È vero che voleva prendere a schiaffi Elsa Fornero?
«Certo che è vero. La detestavo quando era ministro e la detesto tuttora. Rappresenta quella borghesia benestante che piange sulle disgrazie altrui. Sono come quelli che tagliano la testa alla gente e poi ci piangono sopra. Mi ero già avviato, ma un collega, un caro amico, mi ha fermato. La sera prima glie l’avevo detto: “Se la vedo le do due manate...”. Quando il collega vide che ero partito a tromba mi prese il braccio, le ero arrivato vicinissimo. Sia chiaro, non volevo farle male, sarebbe stato come un guanto di sfida».

Qualcuno di sinistra che stimava in parlamento?
«Sposetti e Damiano. Li ricordo con amicizia e stima. Erano di valore: condividevamo poco o niente, ma avevano un grande peso specifico».

Negli anni di militanza a destra ha mai picchiato qualcuno?
«No, neanche un pugno. E ho manifestato da Cuneo ad Agrigento. In compenso ne ho presi parecchi».

Qualche episodio in particolare?
«Le ho prese durante l’assalto all’ambasciata cecoslovacca. Poi a Bolzano fummo caricati dai carabinieri, e ancora a Milano per la prima volta mi sono trovato in mezzo ai lacrimogeni: mi rifugiai in una chiesa».

Diceva che difendere in tribunale i militanti di sinistra è più facile: ricorda qualche caso specifico, senza fare nomi?
«Eh, una montagna, però non voglio raccontarli, neanche mantenendo l’anonimato, perché sono stati miei clienti. La mentalità di sinistra è che i cattivi sono sempre gli altri, loro sono i buoni, vivono di un complesso di superiorità. A destra invece spesso c’è un desiderio di dire di più quello che si è fatto».

 

 

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