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Processano pure Cuore: "Divisivo, spacca l'Italia"

Pietro Senaldi
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Chi è senza Cuore, scagli la prima pietra. Domani, sotto le stelle di San Lorenzo, a San Mauro Pascoli, nel giorno che il poeta celebrò nella sua ode dedicata al padre, assassinato proprio nel paesino romagnolo che a quell’evento e a quel canto deve il suo nome, si inscena il processo all’immortale libro di Edmondo De Amicis. È tradizione di mezza estate, su queste colline, allestire giudizi teatrali su personaggi, eventi, fenomeni; in passato è toccato a Giuseppe Mazzini e Palmiro Togliatti, ma anche al Sessantotto e alla Rivoluzione Francese, pagare tassa e stare alla sbarra.

Domani sarà la volta di Cuore. A reggere le tesi dell’accusa, che sono quelle che fanno notizia, sarà il professor Roberto Balzani, docente di Storia Contemporanea a Bologna ed ex sindaco di Forlì. Il piatto forte dell’impianto incriminatorio è l’imputazione che va più di moda al momento, la più infamante, usata dalla sinistra per bocciare ogni cosa, dalla scelta di un candidato a un’opinione avversa fino a una legge: divisivo.

 

 

Il libro di De Amicis esalta le differenze e pertanto tradirebbe il messaggio universale e unitario che, quando venne pubblicato nel 1886 dalla casa editrice milanese Treves, voleva dare alle prime generazioni di un’Italia appena nata. Il tamburino sardo, lo scrivano fiorentino, il genovese novello Cristoforo Colombo che salpa dagli Appennini per arrivare fino alle Ande, il piccolo patriota padovano razza Piave: sarebbero tutti sponsor occulti dell’autonomia differenziata, voluta 140 anni dopo dalla Lega e approvata da tutta la maggioranza, che è riuscita nel miracolo di compattare l’opposizione, da Renzi a Conte.

Il libro è da tirar giù dagli scaffali in bella evidenza del salotto e infilare nei cartoni nascosti in cantina perché racconta un’Italia diversa, non omogenea né omologabile, dove se nella scuola di Torino si iscrive un bambino calabrese, dev’essere rigorosamente scuro-scuro, con occhi e capelli corvini, e c’è bisogno della presentazione del direttore per spiegare agli alunni che è italiano come gli altri e va accolto. La lezione peraltro è stata imparata bene, perché con ogni probabilità i pronipoti di quel ragazzo oggi siedono in consiglio regionale e comunale in maggioranza numerica rispetto agli eredi dei torinesi doc ai tempi di De Amicis.

Spiegano i detrattori, Cuore sarebbe discriminatorio, propalatore di stereotipi infamanti. Il caso più clamoroso sarebbe quello di Sangue Romagnolo, storia di una rapina in casa nella quale un giovane si sacrifica per salvare la nonna e si becca una pugnalata mortale da due Passator non cortesi, a differenza del brigante Robin Hood che imperversò su quelle colline a metà Ottocento. Il racconto trasmetterebbe della Romagna in fiore cantata cent’anni dopo da Raul Casadei l’immagine di una terra di delinquenti e sanguinari. E allora vai con la liberatoria cancel culture: Cuore va bruciato in uno di quei roghi democratici, lavacri purificatori della cultura, che tanto piacciono ai perbenisti progressisti dell’Occidente, abbattuto come negli Stati Uniti le statue di Winston Churchill e Thomas Jefferson, declassati da statisti a conclamati schiavisti in quanto colpevoli di essere uomini del loro tempo, che non è questo.

Non che qui si sia particolarmente affezionati a Cuore. Letto dopo i tredici anni, il diario dello studente torinese di terza elementare Enrico Bottini, e non a caso l’autore ambientò l’opera nella città da cui partì il processo unitario, risulta indiscutibilmente una melassa indigeribile. Però una cosa al libro va riconosciuta e resta attuale malgrado siano trascorsi 140 anni. Edmondo De Amicis, pur intriso di conformismo sabaudo, aveva capito, e fino all’imperversare dei deliri globalisti della sinistra moderna era anche riuscito a trasmettere alle tante generazioni di suoi lettori, che l’Italia è la nazione dei mille campanili, la diversità è una ricchezza e, per unire le genti, bisogna rispettarla, finanche glorificarla.

Dopo un secolo e mezzo di gloria, oggi Cuore finisce a processo perché è la prova della complementarietà tra un progetto nazionalista, qual era quello dell’opera di De Amicis, uno dei testi su cui si formò l’identità italiana, e il rispetto delle diverse anime dei territori che compongono lo Stato.

Diventa indigesto perché è il riconoscimento, fino all’esaltazione, delle caratteristiche regionali, che diventano ricchezza e patrimonio valoriale comune, dall’ardimento sardo alla cultura fiorentina, dall’abnegazione lombarda all’orgoglio veneto, fino alla capacità di sacrificarsi per un bene superiore del dodicenne palermitano Mario, che lascia l’ultimo posto libero sulla scialuppa di salvataggio alla napoletana Giulietta, che a casa ha ancora chi l’aspetta. Cuore è un pezzo della coscienza popolare d’Italia, per questo oggi non piace ai maestrini della penna rossa, che oggi ricoprono il ruolo di Franti, il cattivo, non a caso il personaggio preferito da Umberto Eco.

 

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