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Togliatti, il revisionismo rosso sull'amico di Stalin

Corrado Ocone
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Sessant’anni fa moriva Palmiro Togliatti, che a ragione può essere considerato il più importante e influente leader del comunismo italiano, non solo da un punto di vista politico ma anche intellettuale (lo stesso Gramsci fu per molti versi non solo una scoperta ma anche una “invenzione” di Togliatti, almeno per come fior di militanti lo hanno letto e conosciuto). L’anniversario della scomparsa del Migliore, per uno scherzo del calendario, giunge a pochi giorni di distanza da quello del suo più tenace avversario politico, quell’Alcide De Gasperi che, fieramente anticomunista e atlantista, riuscì vincitore dalle elezioni del 18 aprile 1948, aprendo la strada al cammino democratico della Repubblica italiana. In molte delle commemorazioni che la stampa sta dedicando in questi giorni a questi due protagonisti, a dispetto di “verità” storiche acclarate, è possibile leggere una doppia operazione “revisionistica”, chiaramente strumentale a fini politici attuali: da una parte, De Gasperi viene presentato come un nemico dei nazionalismi e non del comunismo, di cui si fa capire che in fondo condividesse “con moderazione” certi ideali; dall’altra, Togliatti viene visto come un “sincero democratico”, un politico che, pur conservando un formale rispetto per l’Unione Sovietica, aveva scelto per l’Italia senza indugi la via democratica.

In verità, questa “scelta” non fu propriamente tale, ma fu decisa e in qualche modo imposta da Mosca come conseguenza della “spartizione” del mondo fra Russia e America dopo la sconfitta del nazismo. Senza minimamente rinunciare alla sua idea di dominio su tutta l’Europa, l’Unione Sovietica aveva allora suggerito ai partiti fratelli dell’Occidente di partecipare tatticamente al gioco democratico iniziando contestualmente un lavoro interno di corrosione delle istituzioni. L’obiettivo strategico di medio-lungo periodo restava tuttavia il loro superamento con l’instaurazione del comunismo. Togliatti, che non certo a caso era sopravvissuto alle purghe staliniane nei venticinque anni della sua permanenza a Mosca, tornato in Italia non fece altro che eseguire alla lettera questo programma, in stretto contatto con Stalin e il suo entourage e non contro di lui.

 

 

 

Propriamente, la “doppiezza” togliattiana non era una novità per i comunisti, né sarebbe scomparsa con lui. Tanto che, fino all’ultimo giorno, essa è stata la cifra del comunismo italiano, che mai ebbe il coraggio di rompere con Mosca. La genialità di Togliatti fu senza dubbio quella di aver compreso che la lunga “guerra di posizione” poteva iniziare in Italia dal settore culturale, fino allora dominato da Croce e Gentile.

Sbarcato a Napoli il 27 marzo 1944, il “compagno Ercoli” non perse tempo: mentre collaborava con le altre forze antifasciste per dare un governo al nostro Paese, cominciò con una serie di prese di posizione a mandare segnali precisi al mondo degli intellettuali fascisti vicini a Gentile, che di fatto occupavano non pochi posti di potere, soprattutto nell’accademia (laddove l’influenza di Croce si era esercitata più su un terreno morale). Quando, poche settimane dopo, un nucleo di partigiani comunisti uccise il filosofo in un agguato a Firenze, Togliatti se ne assunse la responsabilità morale, apostrofandolo come “camorrista” e con epiteti così forti da far sembrare da educande il linguaggio politico odierno. Egli fece capire a quegli intellettuali che, se avessero aderito al Partito, non solo non sarebbe stato rinfacciato loro il passato, fungendo lo stesso da “lavacro” delle loro coscienze, ma presto si sarebbero visti restituire onori e cattedre. Ciò che puntualmente accadde e che spiega in buona parte la loro rapida e trasformistica conversione dall’attualismo al marxismo, sicuramente agevolata dalla comune matrice attivistica (riconosciuta anche da Lenin) delle due dottrine.

 

 

 

La stessa operazione fu tentata da Togliatti anche con Croce. Già dal primo numero di Rinascita, che egli fece uscire a Napoli nel giugno di quell’anno, il filosofo napoletano venne contrapposto agli antifascisti “veri” che avevano rischiato la vita mentre lui poteva starsene tranquillo a casa tollerato dal regime. Costretto a rimangiarsi quanto scritto, Togliatti non esitò però a diffondere quell’idea di un Croce pensatore arretrato e provinciale che sarebbe sopravvissuta per tanti decenni nella cultura italiana.

Alla pars destruens, egli ne fece seguire una costruttiva, patrocinando la pubblicazione, presso l’editore Einaudi (che era passato interamente dalla parte comunista), prima delle Lettere e poi dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. Questi ultimi nascevano da note e appunti di studio, non concepiti perla pubblicazione, che il Migliore aveva selezionato e fatto assemblare in modo arbitrario. Essi, proprio perla loro inorganicità, nonché per la vastità dei temi trattati, si prestarono in effetti meravigliosamente, soprattutto con il concetto di “egemonia”, a dare una base teorica all’azione da lui intrapresa di conquista delle “casematte” della cultura italiana (case editrici, mezzi di comunicazione di massa, accademie, enti e fondazioni). Quella storia arriva ad oggi ed è la perversa eredità con cui continuiamo a fare i conti.

 

 

 

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