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Così il capitalismo di Adriano Olivetti entra nel pantheon dei giovani di destra

Anna Lisa Terranova
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In principio fu Evola. Poi venne Tolkien e infine fece la sua comparsa, nel pantheon delle auctoritates dei giovani militanti di destra, anche Adriano Olivetti. Nome recuperato e sbandierato da Alessandro Giuli nella sua audizione alle commissioni Cultura di Camera e Senato. Non proprio un caso. La costruzione del “mito” Olivetti a destra ha una sua storia degna di essere raccontata. Al primo congresso di Fratelli d’Italia, in quel di Fiuggi (luogo iconico che a molti procurò qualche allergia), Olivetti campeggiava, tra D’Annunzio e Balbo, nella galleria di pannelli 4X2 che accompagnavano i congressisti fin sotto il palco. Correva l’anno 2014 e Giorgia Meloni battezzava quello che era allora solo un partitino con queste parole: «Siamo patrioti ambiziosi». E Olivetti lo era. Era pure stato in contatto con la Resistenza ma ciò non impedì a Giorgia di appropriarsene definendolo «il nostro Steve Jobs» e citando un suo pensiero “motivazionale”: «Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande».

Ma prima ancora il Movimento Comunità di Olivetti aveva fornito un nome suggestivo all’omonimo gruppo di volontariato nato per volontà dei fratelli Tony e Andrea Augello che si fece le ossa, politicamente parlando, con le famiglie del quartiere romano di Malagrotta. Si organizzarono corsi gratuiti di ripetizione, si fecero giochi per i bambini. Nonostante la puzza della discarica. Anche gli intellettuali di destra hanno sempre amato l’ingegner Olivetti per quella sua visionaria passione per una fabbrica dove fosse centrale la persona più che il profitto. Al punto da inserirlo, a loro volta, nel filone di pensiero che oppone la sociologia al comunitarismo, pur se su questo terreno a farla da padrone è il padre dell’idea romantica di comunità, ossia il tedesco Ferdinand Tönnies.

 

 

Ma tornando a Fratelli d’Italia va detto che Olivetti rappresentò per i giovani di destra, e tra questi c’era anche la futura premier, il possibile ancoraggio a un capitalismo sociale, declinato all’italiana, un volto meno ruvido e più spendibile dell’ermetico Ezra Pound che vergava versi sulfurei contro l’usura (oggi recuperato, strani casi del destino, da un esponente degli Elkann). E se il neoministro della Cultura ne fa oggi la sua bandiera (soppiantando in qualche modo la figura di Prezzolini cui Gennaro Sangiuliano ha dedicato libri e troppe citazioni) ciò va letto affiancando a quel volto quello di Enrico Mattei. Anche lui patriota ambizioso, anche lui scomodo tanto che la sua vita finì avvolta nel giallo di un mistero ancora insoluto.

E dunque Olivetti maestro per una cultura comunitaria – questo l’input che arriva dal Collegio Romano – che vuol dire libera e diffusa e anche sottratta a tutti gli amichettismi, di qualunque segno essi siano. Enrico Mattei invece “padre” del piano di partenariato con l’Africa non più sfruttata, non più impoverita, non più depredata. Non solo: Olivetti è anche simbolo da utilizzare contro la delocalizzazione, lui che vo leva la fabbrica legata al suo territorio, alla sua storia. Fattore di crescita collettiva e non solo di bilanci in attivo. «Voglio che la Olivetti non sia solo una fabbrica – affermava – ma un modello, uno stile di vita. Voglio che produca libertà e bellezza perché saranno libertà e bellezza a dirci come essere felici».

Come tutti i sognatori Olivetti ha affascinato anche altre famiglie politiche, anche altri leader: Veltroni e Renzi in particolare. E pure Matteo Salvini non mancò di citarlo dal palco di Pontida nel 2018. E come tutti gli irregolari anche Olivetti si presta alle esegesi più varie. Eppure, in quanto inventore della figura dell’imprenditore moderno, industriale e intellettuale al tempo stesso, non può che far battere di più i cuori neri di FdI, per quell’eco innegabile nei suoi scritti dell’umanesimo del lavoro di gentiliana memoria, per quel suo onirico puntiglio di voler conciliare padroni e subordinati. Per quel suo in definitiva non essersi mai fatto sedurre dal culto della classe operaia come soggetto rivoluzionario. Non era di destra, ma destinato, sì, a piacere alla destra.

 

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