Capita da molti anni di leggere la prestigiosa firma di Romano Prodi sui quotidiani italiani. Ma colpisce – com’è invece accaduto ieri – che un suo articolo venga rubricato “reportage” e che rechi in testa l’indicazione “Pechino”, rendendo immediatamente chiaro al lettore da dove stia scrivendo l’ex presidente del Consiglio nonché ex presidente della Commissione Ue.
Intendiamoci, a scanso di equivoci. Per un giornale, una firma così autorevole rappresenta un’oggettiva attrazione e un indubbio motivo di interesse. Allo stesso modo, può essere prezioso il punto di vista dalla Cina e sulla Cina di un esponente politico così esperto, di un uomo che – non solo per incarichi istituzionali pregressi – è titolare di un patrimonio di relazioni di altissimo livello: anche in quel paese, dove è notoriamente stimato e reputato un amico.
Prodi esordisce segnalando ai lettori un fatto rilevante: pur in presenza di eventi globali assai significativi (l’azione di Donald Trump su più fronti, le trattative tra Russia e Ucraina, le tensioni tra India e Pakistan, e non ultima l’elezione di un nuovo Pontefice), i media cinesi hanno dedicato attenzione negli ultimi giorni soprattutto a un altro avvenimento, e cioè alla presenza del leader di Pechino Xi Jinping a Mosca in occasione delle celebrazioni del 9 maggio scorso. E fin qui la notazione pare di oggettivo interesse: alle nostre latitudini, si poteva supporre altro. E invece un uomo dell’esperienza e della sensibilità di Prodi – peraltro trovandosi sul posto – ci segnala una diversa gerarchia delle notizie per l’informazione cinese.
Occhio però all’interpretazione prodiana di questa circostanza. Cito testualmente un passaggio decisivo del suo reportage: «L’enfasi cinese sui colloqui di Mosca è un messaggio agli Stati Uniti che il ventilato obiettivo di Trump di aprire un rapporto speciale con la Russia, isolando la Cina, non ha alcuna possibilità di andare in porto». E ancora: «Non sarebbe quindi possibile ripetere, anche se in direzione opposta, l’operazione che fece Kissinger negli anni Settanta quando, con una intelligente e paziente operazione diplomatica, riuscì a distanziare la Cina dall’allora potentissima Unione Sovietica». Ecco, qui al lettore può sorgere un dubbio. Cos’è questa notazione? È una libera analisi di Prodi, una sua riflessione come analista e direi in questo caso come politologo, come conoscitore di ciò che si muove a Pechino?
Una conclusione preoccupata – da occidentale – sulla saldatura presente e anche futura di due autocrazie? Una diagnosi sconfortata rispetto alla possibilità di aprire da fuori un varco, di favorire una qualche divaricazione tra Pechino e Mosca? O invece – e non si tratta di una sottigliezza – si tratta di un messaggio di Pechino del quale Prodi, nella sua nuova veste di “reporter”, ma magari anche in quella di amico della Cina, si fa autorevolmente latore? Il titolo dell’articolo, sia in prima pagina che all’interno recita così: «Il messaggio di Pechino agli Usa: “Non ci isolerete”». Di nuovo, a scanso di equivoci: qui a Libero non ci passa nemmeno per l’anticamera del cervello l’ipotesi che Prodi si metta a fare il ventriloquo del regime cinese. Quindi l’interpretazione giusta – tra le due che teoricamente prospettavamo poc’anzi – dev’essere di sicuro la prima: una libera analisi pro diana, magari anche velata di preoccupazione, visto che – ne siamo certi – il suo cuore batte forte per l’Occidente. Sì, dev’essere senz’altro così, non c’è dubbio. Altrimenti non saremmo in presenza di un inviato “da Pechino”, ma di un inviato “di Pechino”. Il che va sicuramente escluso. Vero?