Un conflitto alle porte dell’Europa di cui non si intravede via d’uscita, Israele lasciato dall’Occidente in balia dei suoi nemici, la Cina giudicata potenza affidabile nonostante il suo autoritarismo. Ce n’è abbastanza per ripetere, con Shakespeare, che il mondo sembra essere uscito dai cardini. Tutta colpa del liberalismo? Così sembrano pensarla in molti, anche da posizioni di destra o conservatrici. Patrick J. Deneen, professore all’Università Cattolica di Notre Dame, influente intellettuale americano (nota è la sua amicizia con J. D. Vance), va ancora oltre e auspica per il futuro un vero e proprio Cambio di regime (è il titolo del suo più recente volume).
Prima di vedere quali sono i tratti del “futuro post-liberale” a cui Deneen aspira, bisogna però chiedersi cosa esso avrà ancora di liberale e, soprattutto, quale sia il “liberalismo” che per lui è fallito. La prima impressione che si ha è che Deneen identifichi il liberalismo con l’individualismo, nonostante Hayek abbia precisato la differenza fra i due termini. È vero che il concetto di individuo, o meglio di libertà individuale, è centrale nel pensiero liberale, ma per il liberale l’individuo non è un dato “naturale”, ultimo, ma storico. Detto in soldoni, poiché l’individualità è legata alla coscienza che si ha di essa, è innegabile che questa consapevolezza è sorta in determinate civiltà e in determinati momenti storici e non in altri. La libertà è sempre determinata, o radicata se si preferisce.
Non si può perciò non far riferimento a quelle pre-condizioni che l’hanno resa possibile in Occidente e che sono proprio quelle oggi messe in discussione dalla cultura dominante: la famiglia, il matrimonio, la religione, la comunità locale. Bene fa Deneen a ricordarcelo, anche se il suo errore è poi quello di ipostatizzare questi elementi, tenendoli a loro volta al di fuori della storia. Il fatto è che egli fa riferimento alla concezione aristotelica del “bene comune”, la quale era inserita in un ordine di pensiero metafisico oggi improponibile.
In sostanza, alla metafisica individualistica, Deneen sembra contrapporne una che, pur richiamando elementi essenziali all’affermarsi del liberalismo, è pur sempre tale. Le pagine dedicate dall’autore alla decostruzione della cultura woke, al suo farsi strumento di potere in mano alle classi dominanti, sono a dir poco esemplari. Quella cultura, proprio perché è una «nuova forma di tirannia» come la definisce, non ha però nulla a che vedere col liberalismo. Il liberale, tuttavia, non contesta il diritto di ognuno di esprimere le proprie tesi, fossero pure quelle woke, quanto la pretesa di imporle alla maggioranza sopprimendo ogni dissenso.
Se il “conservatorismo del bene comune” proposto da Deneen riconosce il diritto al dissenso, ben venga: esso è liberale, nel senso puro del termine, e la critica al liberalismo che esso compie nasce da un malinteso terminologico.
Se così non fosse, la riserva sul “futuro post-liberale” credo sia d’obbligo. Che Deneen non voglia imporci una metafisica su basi “naturali” lo si può evincere da numerosi passi della sua riflessione, ad esempio quando critica le forme di censura messe in atto da Harvard e da altre università americane, tutt’altro che templi del free speech come sembrerebbe in questi giorni dalla lettura dei quotidiani italiani. «Mentre l’ordine post-liberale sarà trasversale agli attuali partiti politici, l’attuale migliore speranza – scrive Deneen- è una nuova destra». Siamo d’accordo. Non perché il «programma economico» della nuova destra «prende spunto dalla vecchia tradizione socialdemocratica», quanto perché, seppure in modo a volte confuso, è a destra che oggi è possibile porre l’eterno tema della libertà umana.