Referendum, Landini voleva guidare la sinistra: verso il grande flop

Il sindacalista ha provato a tendere una trappola ai partiti del campo largo. Niente quorum, ma se supererà il 30% dirà di avere più voti della Meloni...
di Pietro Senaldilunedì 9 giugno 2025
Referendum, Landini voleva guidare la sinistra: verso il grande flop
4' di lettura

Segretario che perde, non si cambia. Maurizio Landini non è mica Luciano Spalletti. Innanzitutto perché lui, quando parla, lo si capisce benissimo. A differenza dell’ormai ex allenatore degli azzurri, che aveva idee bislacche che non riusciva a esprimere e trasferiva immediatamente all’interlocutore la sua confusione mentale, il segretario della Cgil ha idee chiarissime, che però deve nascondere per motivi di opportunità. Lui vuole la leadership della sinistra e usa il sindacato come mezzo per arrivarci. Non gli premono le battaglie per i lavoratori, come dimostrato chiaramente dai cinque quesiti promossi da questo referendum, non uno dei quali è in grado di risolvere i problemi degli occupati italiani di basso livello. Gli preme imporsi attraverso slogan che potenzialmente possano colpire chi ha una sensibilità progressista, senza testare la loro efficacia nella realtà.

Landini ha messo in conto da subito di non raggiungere il quorum, per questo ha teso la trappola ai partiti del presunto futuro campo largo, chiamandoli a sostegno contando sul fatto che non si sarebbero potuti sottrarre.

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Casomai un miracolo dell’ultima ora gli consentisse di varcare la fatidica soglia, lui sarebbe il vincitore unico, l’uomo che ha unito la sinistra. Qualora invece, molto più probabilmente, ciò non accadesse, la colpa è dei partiti, che non hanno saputo sostenere le battaglie che davvero contano per gli italiani e il giorno prima del voto si preoccupavano di Gaza e di Trump, palco dal quale il sindacalista rosso si è abilmente sottratto.

Una cosa è certa. Stasera il segretario della Cgil imiterà quello che all’interno della sinistra è stato il suo maggior oppositore sui referendum, Matteo Renzi. L’ex rottamatore provò ad assorbire la botta del referendum istituzionale che personalizzò su di sé e perse nel 2016 sostenendo che era il leader più popolare d’Italia, visto che il 41% degli elettori erano con lui, salvo poi essere smentito alle Politiche due anni dopo, portando il Pd al 19%, record assoluto negativo che neppure il disastroso Enrico Letta riuscì a battere quattro anni dopo.

Landini dichiarerà di essere un fenomeno, sosterrà che il 30, 35, vogliamo esagerare 40% degli italiani sta con lui e che nessun altro leader della sinistra potrebbe mai vantare un tale consenso. Elly Schlein? Divisiva anche all’interno del Pd? Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli? Ce ne vogliono due per fare meno della sua metà.
Giuseppe Conte? Velleitario e imprevedibile, ma inattaccabile da parte di Maurizio il rosso, che conta molto sul leader grillino per eventuali importanti cooptazioni a ruoli di guida e garante. Carlo Calenda? Per piacere... E poi si vanterà di avere il potere taumaturgico di sulla tendenza-condanna a dividersi, che è l’unico dna comune della sinistra italiana. Verdi e Sinistra hanno dato indicazione di votare cinque Sì, i grillini si sono sfilati dal referendum sulla cittadinanza lasciando libertà di coscienza, +Europa ha optato per due Sì e tre No, Azione per un Sì e quattro No. Sempre meglio di Italia Viva, che ha fatto un Sì, due No e due forse, o del Pd, che ufficialmente è per i 5 Sì, anche se poi i riformisti dem hanno deciso di non ritirare le schede dei referendum che abrogherebbero le norme che loro stessi hanno votato nella scorsa legislatura.
Comunque sono dettagli per l’ambizioso Maurizio, per il quale conta solo il numerino del quorum: se avrà il “3” davanti, lui potrà dire di avere più voti di Giorgia Meloni.
Delirante? Affatto. Tutto rientra nella sua strategia annunciata quando ha invocato alla rivolta sociale dal palco dello sciopero generale contro una finanziaria che confermava il taglio del cuneo fiscale sugli stipendi più bassi.

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Landini sa che i tempi sono cambiati e non cerca i disordini in piazza, consapevole che lo metterebbero immediatamente ai margini del gioco delle sedie che contano. Ciò non di meno, sempre sventolando la Costituzione a ogni occasione buona, l’uomo persegue una strategia eversiva, ossia arrivare al potere senza la benedizione delle urne, in quanto front-man della parte giusta.

Non c’è da auguragli buona fortuna, e non solo per l’aggiramento democratico che ha in testa. È che proprio il segretario della Cgil, nei suoi discorsi quasi quotidiani, non riesce mai a dare l’impressione di avere idea di cosa servirebbe al Paese per sconfiggere quella “povertà crescente” che lui si sforza di denunciare. Al suo confronto, Luigi Di Maio con il reddito di cittadinanza e il decreto dignità, misura disastrosa la prima e poco utile la seconda, era uno statista. Landini invece sembra uscito da un documentario sugli anni Settanta. La sua frase preferita è della mamma, che gli diceva sempre che a tavola, dove si mangia in sei, c’è posto anche per il settimo. Certo, basta ridurre la fetta di torta.

Ma il problema è che, diventato grande, Maurizio ha mandato a memoria la lezione e non si ferma più. I sette sono diventati otto, nove, dieci, undici: per lui non c’è mai problema. Non si pone l’obiettivo di fare una torta più grande, solo di dividere in tante piccole porzioni quella che c’è. Per mangiarsela da solo in facili bocconi.