È tornato. Anche se, a dirla tutta, Dario Franceschini non se n’è mai andato. Ma dopo l’ultimo colpo da maestro (l’elezione a segretaria del Pd di una non iscritta), si era tenuto molto dietro le quinte. Negli ultimi tempi, però, l’officina di Dario (l’ex negozio che ha comprato all’Esquilino trasformandolo in ufficio) è stata molto frequentata. L’ambizione (e la speranza) è di poter dare una mano decisiva per costruire una coalizione in grado di battere nel 2027 o, come lui pensa, anche prima- quella che attualmente governa. Il segnale di questo “ritorno” sulla scena è stato l’intervento di ieri nell’Aula del Senato, durante le dichiarazioni di voto sulla riforma Nordio. È stato lui a parlare per il Pd. Cosa abbastanza insolita per Franceschini. Ma quando ha preso la parola, si è capito perché. La separazione delle carriere, infatti, è stata l’occasione per un’analisi molto politica, inconfondibilmente “franceschiniana”. Un avvertimento a Giorgia Meloni, ma anche, indirettamente, al centrosinistra.
Il referendum che si terrà nel 2026, è stato il ragionamento di Franceschini, potrebbe segnare la fine di questo governo, anticipando di un anno le elezioni politiche (e dunque il centrosinistra si prepari in fretta). Sarà il “Papetellum” della premier, ha detto, alludendo al colpo di mano con cui Matteo Salvini, nel 2019, fece cadere il governo gialloverde. E questo perché «sarà senza quorum, tutto politico, essendo a fine legislatura», sarà un voto «pro o contro il governo Meloni, oltre il merito. E state certi che non pochi avranno voglia di uscire di casa per votare contro il governo e le vostre tentazioni autoritarie».
Ha ricordato il precedente del Papeete, quando «Salvini disse che voleva i pieni poteri Meloni è più furba, non lo dice, ma pensa la stessa cosa, e il premierato è la prova». Ha quindi rammentato che le «riforme costituzionali degli ultimi anni hanno avuto tutte lo stesso esito», ossia sono state bocciate. E da notare- ha aggiunto per gli scaramantici - la ricorrenza a cadenza decennale: «Nel 2006 la Devolution voluta da voi, è stata bocciata dagli italiani, nel 2016 la riforma Renzi voluta da noi è stata bocciata, nel 2026 questo Papetellum sarà bocciato». Quanto al merito della riforma, ha criticato il presunto tentativo di indebolire la magistratura, i “boomerang” che avrebbero segnato l’intera riforma (si voleva limitare il potere dei pm, si finirà per aumentarlo). Ha citato i film di Peter Sellers, dal Dottor Stranamore alla Pantera Rosa.
Ha parlato a Meloni, ma anche (come si diceva) ai suoi. Se Meloni deve guardarsi dal fare la fine di Renzi, il centrosinistra, è il messaggio in bottiglia, deve fare in fretta a decidere lo schema di gioco. Anche perché si potrebbe votare prima. Lo schema, Franceschini, lo ha in mente da un pezzo. Da mesi ha riallacciato i rapporti con Matteo Renzi e rinsaldato quelli con Goffredo Bettini. Una prova di questo nuovo sodalizio è l’ingresso nella giunta capitolina di un suo fedelissimo, Pino Battaglia, diventato una settimana fa assessore alle Periferie. Una nomina che sigla la “pace” tra Gualtieri e Franceschini (l’area dell’ex ministro dei Beni culturali era l’unica del Pd assente dalla giunta) e di cui l’artefice, ovviamente, è Bettini.
Il disegno è favorire la costruzione di una gamba centrista del centrosinistra o “tenda dei moderati”, senza la quale - è convinto - il Pd, sia pure alleato di Avs e M5S, non potrà battere il centrodestra. Per Franceschini, bisognerebbe mettere dentro tutti: Ernesto Ruffini coi suoi comitati, Alessandro Onorato e i suoi civici, la “Rete solidale e civica” di Paolo Ciani, Silvia Salis - nuovo sogno centrista - Italia Viva e persino Azione, anche se Carlo Calenda non è per nulla intenzionato a stare nel centrosinistra (e nel Pd non si fidano più di lui). Resta l’incognita su chi potrebbe guidare questa “Cosa di centro”, al momento fatta di soggetti i cui leader non si parlano nemmeno. L’idea Salis non dispiace nemmeno a Franceschini. I maliziosi dicono che guardi con interesse alla legge elettorale che il centrodestra farà. Se, come pare, dovesse esserci l’obbligo dell’indicazione del candidato premier, per dirimere gli inevitabili veti reciproci (Conte non accetterebbe Schlein e viceversa), non resterebbe che rivolgersi a un civico. E chi meglio di Salis, che, a quel punto, potrebbe guidare la gamba centrista e fare il candidato premier? Ma c’è tempo. Il primo bivio sarà il 2026 con il referendum. Da lì, si capirà il resto della strada.