OPINIONE

Il partito di La7, ecco la vera opposizione

di Mario Sechi e Costanza Cavallimartedì 16 settembre 2025
Il partito di La7, ecco la vera opposizione

(La7 DiMartedì)

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«Video killed the radio star» cantavano i Buggles nel 1979, il Sessantotto era già finito (non la sua nefasta influenza sulla politica e la cultura), in lontananza già si sentivano ruggire gli anni Ottanta di Ronald Reagan che regnò alla Casa Bianca dal 1981 al 1989, liberando l’Europa dal comunismo e dalla Guerra Fredda (l’Unità fece questo titolo quando vinse le elezioni: «Inquietudine nel mondo per la vittoria di Reagan», sempre acuti, i compagni). Con il boom di Internet si immaginava l’arrivo di un nuovo titolo, «Internet killed the video star» e molti oggi pensano e teorizzano che la tv lineare sia morta. I numeri dicono che non solo è viva, ma continua a trasformare la realtà, creare nuovi miti, curvare lo spazio politico.

Tutti vogliono possedere la tv, la maggior parte ne sono posseduti. Urbano Cairo, editore del Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport, patron a pagina 6 L’informazione è il campo di battaglia degli ascolti, pur non dominando tutti i palinsesti costituisce di fatto la cifra della televisione e in una stagione in cui la Rai è in piena transizione industriale (e deve trovare un suo equilibrio editoriale) e Mediaset ha rafforzato l’offerta del suo bouquet d’informazione, La7 è destinata ad accentuare il suo profilo identitario di rete a totale trazione progressista. Un rullo compressore (...) del Torino Calcio, possiede La7.

Quando guardo i suoi programmi (tutti i giorni, per lavoro e divertimento, osservare il racconto ultraterreno della sinistra mediatica è cabaret) a volte penso che ne sia anche misteriosamente posseduto, perché la sua tv ha preso il posto che fu di Repubblica, dal “giornale-partito” fondato da Eugenio Scalfari siamo passati alla “tv-partito” de La7. che non ha nessun controcanto.

Ieri Lilli Gruber in un’intervista sul Corriere della Sera - la nave ammiraglia del Gruppo Cairo - ha illustrato la linea. Interrogata da Aldo Cazzullo ha detto: «Io faccio la giornalista, non la politica»; «la mia “parte”, è quella di sempre: la Costituzione, i valori democratici e la correttezza professionale»; il Presidente degli Stati Uniti è «il bullo-in-chief Trump, straordinario fomentatore di odio e disprezzo». Quanto al giudizio sul governo, eccolo splendere in tutto il suo equilibrio giornalistico: «L’economia non crolla ma boccheggia. Il ceto medio è impoverito. La sanità pubblica è in forte difficoltà. Gli sbarchi di migranti non sono diminuiti rispetto all’anno scorso. Sul piano internazionale l’Italia va a ricasco di Trump, e in Europa la Meloni mantiene un’ambiguità di fondo sulle questioni cruciali. Oltre a questo, c’è tanta propaganda, tanta polarizzazione, tanti nuovi reati inutili, e un nemico al giorno per tenere alta la tensione».

Ognuna di queste granitiche affermazioni di Gruber è facilmente confutabile, dai numeri dell’economia, dalla stabilità di Palazzo Chigi in uno scenario europeo di rottami politici alla deriva, dalla rassegna stampa internazionale sulla leadership di Meloni, guida di una destra pragmatica (e non ideologica), popolare (e non populista), europea (e non sovranista), occidentale (e non senza patria). Lilli ha un suo punto di vista. Politico e di sinistra. Legittimo, ma non si può travestire come un racconto bipartisan, bilanciato, aperto al dubbio e al confronto ad armi pari.

Il suo programma (in palinsesto da 17 anni) è un eccezionale ingranaggio a tesi, sceneggiato in maniera tale da non lasciare scampo alle idee dell’altra parte che, quando è rappresentata (ieri nella prima puntata della stagione non lo era, tutti gli ospiti erano creature del paesaggio no-Meloni, no-Trump, no-destra) è destinata a soccombere, sommersa dai commenti della Voce Unica del giornalismo.

La linea della tv non conosce sfumature, il palinsesto è un’armata rossa: Corrado Formigli (Piazzapulita, ha cominciato la stagione attaccando il Tg1 che negli ultimi 15 anni non aveva mai dato tanto spazio all’opposizione) e Giovanni Floris (diMartedì, parte domani) sono gli arieti della rete con servizi, inchieste, interviste e talk che si dispiegano su un format di lunga durata; Massimo Gramellini (In altre parole) filosofeggia sfoggiando il pregiudizio della superiorità antropologica dei salotti; Corrado Augias (La Torre di Babele) è sempre nei panni del gentleman che distilla il bon ton del radical chic acculturato; Diego Bianchi, in arte Zoro, fa Propaganda Live, ha perso il tocco dell’ironia per esondazione dell’ideologia e basta il titolo del suo programma a darne la cifra. Nuovi ingressi in scuderia: Roberto Saviano con un nuovo programma in sei puntate (La Giusta distanza); il procuratore Nicola Gratteri che darà Lezioni di Mafie. Cultura conservatrice? Zero.

Pronti via, ieri prima puntata di Otto e mezzo, ospiti Marco Travaglio, Giovanni Floris, Lina Palmerini e Beppe Severgnini che discutono del tema «Meloni, Trump e il vento dell’odio», dove l’odio naturalmente è tutto di Giorgia e Donald, coppia di destri mefistofelici. La realtà de La7 è un sottosopra, nella “tv partito” tutti si danno ragione. Schlein e Conte? Vanno a rimorchio del palinsesto, ne sono attori a chiamata del conduttore, non hanno la leadership e la cultura per competere con la destra, è La7, la “tv partito”, a costruire il racconto della sinistra, in un ribaltamento dei ruoli tra politica e giornalismo.