Se gridi “al lupo al lupo” per prenderti burla dei contadini, come faceva il pastorello della favola di Esopo, il rischio è che quando il lupo arriva veramente il tuo allarme cada nel vuoto perché nessuno più ti crede. Qualcosa del genere potrebbe accadere alla sinistra italiana che sull’“allarme democratico” ha costruito la sua retorica da almeno mezzo secolo a questa parte e che, imperterrita, continua a riproporlo ancora oggi come una sorta di riflesso pavloviano. Gli allarmi per le sorti della democrazia lanciati in questi giorni da Elly Schlein, prima sulla libertà di stampa e poi sull’approvazione in Parlamento della separazione delle carriere in magistratura, sono l’ultimo atto di una commedia che potremmo far iniziare da quando, nel 1979, Bettino Craxi propose una “grande riforma” tesa a modernizzare l’Italia e a fare della nostra una “democrazia decidente”.
Pur essendo un socialista doc, i comunisti cominciarono a trattarlo come un “fascista”, tanto che Giorgio Forattini, allora seguitissimo vignettista di area, cominciò a disegnarlo in camicia nera e con gli stivaloni. Andato, o meglio mandato in disgrazia, Craxi, fu la volta di Silvio Berlusconi. La sua “discesa in campo” e conseguente inattesa vittoria, quando ormai già la “gioiosa macchina” di Occhetto si preparava a stappare le bottiglie di champagne, generò subito l’“allarme democratico”. In quel caso veniva visto in un conflitto d’interessi ingigantito oltre misura ed elevato a paradigma del trionfo delle forze del capitale su quelle della rappresentanza. In verità, per la prima volta in Italia, c’era una abbozzo, se non altro, di democrazia compiuta, con quella sana possibilità di alternanza al potere fra forze diverse che era stata impedita nel dopoguerra dal cosiddetto “fattore K”. Negli anni seguenti, ogni volta che il Cavaliere vinceva democraticamente le elezioni e cercava di realizzare il suo programma schiettamente liberale e occidentalista, le trombe dell’“emergenza democratica” risuonavano implacabili. Le occasioni erano le più diverse: fosse un “decreto sicurezza” a rendere più tranquille le nostre vite o un tentativo di riformare in senso garantista la magistratura, ogni occasione era buona per snocciolare la formuletta magica. La quale, fra l’altro, esonerava dalla fatica di una critica ragionata delle idee dell’avversario e, quindi, dalla ricerca di proposte politiche alternative da sottoporre ai cittadini. Insomma, la normale dialettica che rende la democrazia un sistema forse imperfetto ma certamente il migliore fra quelli finora sperimentati.
A incarnare il pericolo per la democrazia sarebbe poi stato Matteo Salvini, che si era ripromesso nientemeno che di fermare il traffico di carne umana nel Mediterraneo e regolarizzare i flussi migratori. Che è quanto normalmente avviene in altri Paesi civili e che a Salvini era stato chiesto da una vasta fetta dell’elettorato. Con il governo di centrodestra al potere e con Giorgia Meloni al governo ci si sarebbe aspettato dalla sinistra un atteggiamento diverso, la “elaborazione del lutto” e la delineazione di un programma diverso da quello dell’esecutivo.
Nulla da fare: lo slogan pronto all’uso dell’”allarme democratico”, sempre meno credibile e sempre meno ascoltato dagli italiani, continua imperterrito a fare la sua parte. Il che è poi abbastanza ridicolo, perché mai come in questo frangente l’Italia è riconosciuta a livello internazionale ed è un riferimento per gli altri Paesi democratici. Politicamente inefficace perché in sostanza una fake news, l’allarme per la democrazia segnala qualcosa di più profondo, cioè a scarsa comprensione proprio di quel che è la democrazia: dialettica fra forze politiche e idee opposte e non l’affermazione “totalitaria” delle proprie idee ritenute le uniche moralmente accettabili.




